Una svista in funzione tecnica per consentire un voto di fiducia, o un errore come già altre volte accaduto in Parlamento? A Palazzo Madama, tra mercoledì e giovedì della scorsa settimana il decreto Competitività viene emendato dai senatori. In particolare, in commissione su proposta di due senatori alfaniani, Bruno Mancuso e Antonio Caridi, più il piddino, Salvatore Tomaselli, si stabilisce che il limite dei 240mila lordi l’anno non si applica a società che “emettono strumenti finanziari quotati o che rilasciano titoli scambiati nei mercati regolamentati”.

Stando alle modifiche approvate in commissione, e alle voci che rimbalzano da un palazzo all’altro, si sarebbero salvate società come Poste, Ferrovie dello Stato e Cassa depositi e prestiti, e anche aziende pubbliche che emettono i semplici Boc, i buoni comunali. L’emendamento ha un costo da 1 milione di euro, da trovare tagliando il fondo per il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione. Si solleva il polverone. Il capogruppo alla Camera di Sel, Arturo Scotto denuncia il caso e diffonde un comunicato al vetriolo: “Evidentemente Renzi era impegnato a scrivere qualche tweet e non si è accorto che il governo da lui presieduto eliminava i limite dei 240mila euro per gli stipendi dei manager delle società’ partecipate, e lo inseriva in una norma del Dl Competitività”. Scotto prosegue e rilancia: “Ora ci aspettiamo da Palazzo Chigi un #cambiaverso reale. Se non avvenisse sia chiaro che a Montecitorio faremo  di tutto per eliminare questa norma”.

Eppure il polverone suona strano. L’emendamento cozza con quanto scrive un comunicato del ministero dell’Economia, datato 28 marzo 2014. “Si coglie questa occasione -recitavano da via XX Settembre – per richiamare anche le norme che regolano i compensi per gli amministratori di tutte le società controllate direttamente o indirettamente dalle pubbliche amministrazioni che emettono azioni (Eni, Enel, Finmeccania) o altri negoziati su mercati regolamentati (Ferrovie dello Stato , Cassa depositi e prestiti, Poste Italiane). Per queste società non sono attualmente previsti limiti in valore assoluto alle retribuzioni”. Né, conferma in queste ore cocenti un renziano a Montecitorio, “con successivi provvedimenti si è modificato ponendo un tetto ai manager di tali società. Sarà stato un errore, così come successo in altre occasioni”. Del resto, continua il renziano con ilfattoquotidiano.it, “dopo aver votato un decreto, un ddl, si dà mandato alla presidenza o al relatore del coordinamento formale del testo. Non ci vedo nulla di politico”.

Un errore, o come sussurrano taluni “una svista per tecnica per riporre la fiducia sul testo”? Il quesito resta sospeso. Fatto sta che subito dopo la “misteriosa misura” – nel passaggio dalla commissione all’aula del Senato – sparisce. Nel maxiemendamento, infatti,  si assegna all’esecutivo la facoltà di indicare entro 90 giorni la lista delle società che rientrano nel tetto dei 240mila euro e quelle che resteranno fuori.  Un modo come un altro per congelare il caso, ma allo stesso tempo per inviare un messaggio di apertura ai cittadini. Non finisce qui, però. Perché proprio in queste ore, quando il governo alla Camera starebbe rimettendo mano al dl Competitività, la misura sul tetto manager potrebbe subire ulteriori modifiche. Dalla commissione Ambiente di Montecitorio non si esclude qualsiasi tipo di scenario sul caso in questione. Ma il dl, che approderà in aula il prossimo 4 agosto, dovrà tornare al Senato per la terza e ultima settimana. Ci riproveranno i protagonisti dell’emendamento misterioso?

 @GiuseppeFalci

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