Per chi è abituato a seguirla sul piccolo schermo, la vita di un medico appare fatta sì di studio, sacrifici e impegno, ma anche di gesti eroici e grandi riconoscimenti, il tutto prima dell’effettiva specializzazione. Chi, invece, è abituato a condividere la propria stanza con una giovane dottoressa (almeno nell’animo) scopre che la sua vita, aldilà della finzione, è fatta di grandi speranze, domande sul proprio (incerto) futuro e, molto spesso, valigie da riempire.
Ha fatto molto rumore l’annuncio del ministro Stefania Giannini sull’abolizione del test d’ingresso a medicina, spauracchio, nel mese di aprile, per quasi 70 mila aspiranti camici bianchi. La proposta sarebbe quella di rimpiazzarlo con un sistema simil francese. Idea, per ora solo sbandierata su Facebook, alla quale seguiranno dettagli sulle modalità di realizzazione a fine luglio. E, visto che il paese transalpino viene preso a modello, almeno per quanto riguarda l’accesso agli studi, viene spontaneo un paragone sul percorso successivo. Al di là di giudizi sull’efficienza del sistema, i due paesi sono paragonabili?
Prendiamo due ipotetiche studentesse: una parigina e una romana. La prima, in Francia, essendo una degli oltre 55mila ragazzi (dati 2012-2013) partiti il primo anno di corso, potrebbe ritrovarsi 365 giorni dopo tra i “fortunati” compresi in quel 15-20 per cento che in media continueranno gli studi medici senza dover cambiare facoltà (per lei l’eventuale scelta di andar via è posticipata). Per la seconda la vita sarà da subito più difficile, con una platea di 69603 aspiranti studenti a contendersi i 9983 posti a disposizione in tutta Italia.
E qui la studentessa romana penserà alla prima valigia: oltrepassare o meno il confine alla conquista del posto in facoltà? Coloro che sono disposti a cambiare nazione per laurearsi in campo medico sono sempre di più (spostandosi in paesi, come la Romania, dove le esose rette non sono comunque accessibili a tutti).
Anni dopo, le due, arrivate alla fine del primo ciclo di studi (mentre i loro omologhi televisivi effettuano operazioni a cuore aperto in un ascensore) dovranno decidere quale specializzazione intraprendere: la scelta è importante e la francese la baserà sul risultato dell’Ecn, temibile test nazionale attraverso il quale, però, tutti trovano una collocazione secondo la graduatoria, perché in genere i posti a disposizione sono pari al numero dei partecipanti. La laureata italiana probabilmente, se è scampata alla prima, dopo l’agognato giuramento di Ippocrate comincerà a preparare le seconda valigia: le porte della scuola di specializzazione, infatti, (alle quali si accederà con concorso nazionale, il cui bando uscirà a luglio e sulle cui modalità i sindacati dei giovani medici esprimono comunque preoccupazione) si aprono per un numero di medici molto inferiori rispetto alla richiesta. Con un conseguente tasso di emigrazione altissimo, contro il quale i giovani laureati sono scesi in piazza.
Infine il lavoro. E qui i dati sono comunque sconfortanti: secondo alcuni numeri del Ministero della Salute negli ultimi anni (precisamente dal 2009 al 2012) si ha avuto un aumento di oltre il 40% di richieste di domande per l’attestato di conformità Ue, documento fondamentale per chi decide di esercitare la professione all’estero o per specializzarsi fuori dai confini italiani, a causa, principalmente, non tanto di un salario più alto, ma di un contratto meno precario, qui difficoltoso per il blocco del turnover.
Il tutto con una vera e propria mancanza di lungimiranza da parte del nostro Paese, che prima forma uno specialista, con costi altissimi (uno studio riporta come la formazione di un medico, per tutti gli 11 anni si aggiri oltre i 150 mila euro) per poi lasciarlo andare. E con una prospettiva, neanche troppo lontana, che vede l’Italia in carenza di 15mila medici in 10 anni.
Al di là delle promesse e dei sogni di gloria (più o meno cinematografici), ciò che salta all’occhio è che, secondo i numeri, sia tra chi è riuscito a completare il proprio percorso di formazione, sia tra gli aspiranti camici bianchi il comune denominatore sembra essere proprio la valigia. Tanto da giustificare anche la nascita di blog dai titoli eloquenti, come ad esempio “Doctors in fuga”, sito definito “catalizzatore di cervelli medici in fuga” dove viene spiegato “tutto quello che serve sapere per lavorare come medico all’estero”, elencato paese per paese, con spazi di confronto e discussione.
Insomma, il problema di come far entrare gli studenti in facoltà dovrebbe essere solo il primo passo di un percorso che eviti che i cervelli dei giovani medici escano. Dall’Italia.