“Abbiamo sentito la necessità di rompere gli schemi entro i quali siamo vissuti negli ultimi anni. Abbiamo approfittato di questa circostanza per creare una specie di confine rispetto al passato. Da questo momento non soloAnno Uno, ma tutto la nostra produzione prenderà un’altra piega”. Michele Santoro al telefono esordisce così. I dati Auditel sul successo del nuovo programma condotto da Giulia Innocenzi sono appena arrivati: due milioni di telespettatori, share oltre il 10 per cento. I fatti, anzi i numeri, gli hanno dato ragione. Martedì 6 maggio, durante una lunga chiacchierata faccia a faccia (che potete leggere integralmente in questo pezzo), aveva illustrato il suo pensiero su tv, giornalismo, politica e Beppe Grillo. Ora parla con il tono soddisfatto dell’allenatore che, alla luce del risultato, sa di non aver sbagliato né la formazione, né la tattica di gioco.

Anno Uno, rispetto a Servizio Pubblico, è apparso a molti un programma più solare, meno cattivo e con meno mediazioni giornalistiche. 
Guarda, qualcuno ha fatto riferimento ad Amici, ma secondo me è un errore. Qui c’entrano A bocca aperta di Gianfranco Funari e Per voi giovani di Renzo Arbore. Sono questi i riferimenti da cui siamo partiti, non i reality. È chiaro, però, che il precipitare di questi giovani dentro la trasmissione, anche con punti di vista forti, è stato un elemento di innovazione. E poi, soprattutto, c’è stata Giulia che, come pensavo, è andata alla grande.

Non chiedere a Matteo Renzi niente sullo scandalo bipartisan dell’Expo è stata una dimenticanza o una scelta? 
Rispetto a Servizio Pubblico l’andamento di questo tipo di trasmissione è volutamente più narrativo. Anche se siamo sempre giornalisti, con Anno Uno siamo meno aperti alle notizie dell’ultima ora. Quella di giovedì non è stata una trasmissione su Renzi e sulle domande giornalistiche che solleva, come sarebbe accaduto in qualunque altro programma d’informazione. Qui c’era un tema, La Paura, e lo abbiamo affrontato con l’ospite. Questo è un format preciso che segue una narrazione. Se non fosse stato così avremmo rifatto Servizio Pubblico.

Domande dei ragazzi, nessun contraddittorio con politici di altri partiti. È il format ideale per ospitare Beppe Grillo. 
Secondo me sì. Grillo dovrebbe sentirsi a casa sua. Questi giovani, oltretutto, sono destinati a crescere. Noi giovedì sera li abbiamo visti al 4 o al 5 per cento del loro potenziale. Ma possono sorprenderci molto. Vedo che alcuni di loro sono già ora suscitano enorme interesse sul web. Anche perché sono tutti personaggi interattivi. Ma sarebbe pure bello vedere Berlusconi in questo contesto. Perché, da un certo punto di vista, sarebbe una cosa drammatica, che lo mette alla prova.

Punti al remake delle scorse politiche? 
No. Rifare Berlusconi a Servizio pubblico è un’inutile ripetersi. Non avrebbe mai la drammaticità del primo incontro e non avrebbe mai quel risultato. Vedere Berlusconi con questi giovani sarebbe invece uno spettacolo nuovo.

Anche perché lo scorso anno c’era un clima diverso. Berlusconi era percepito come il pericolo pubblico numero uno (qui parte la trascrizione del colloquio con Santoro di martedì 6 maggio).
Allora stavamo raccontando una stagione di grandissimi cambiamenti, con la tv che andava straordinariamente male e i talk, al contrario, straordinariamente bene. Tanto che con Servizio PubblicoLa7 in quella fascia di programmazione era la seconda rete italiana. Batteva sempre Canale5. Non che poi quest’anno le cose siano andate male. Anche se non lo dice nessuno, infatti, in quella fascia La7 ora è terza. Noi abbiamo fatto in media il 9,3 per cento di share. In ogni caso, l’ascolto fatto nella puntata con Berlusconi resta un fenomeno megagalattico. Ha fatto esplodere la rete a percentuali che nessuno credeva pensabili.

Restano però le critiche che conosci. A mente fredda rifaresti tutto alla stessa maniera? Non pensi che il fuoco di fila delle domande sia stato troppo leggero? O che non includere Marco Travaglio tra gli intervistatori sia stato un errore? 
Se vogliamo esseri freddi nell’analisi dobbiamo depurare la valutazione dal dibattito politico. La curva di ascolto lì cresce dall’inizio alla fine. Per me che faccio televisione vuol dire che è stato un programma avvincente dall’inizio alla fine. Bisogna respingere il vizio italiano di chiedersi se il programma è servito a Berlusconi o a Bersani. La scaletta, la costruzione, i protagonisti sono stati assolutamente azzeccati. Poi, semmai, se devo rimproverarmi qualcosa, è di non essere intervenuto in quel famoso momento nel quale Berlusconi si è messo nei panni di Marco, con una trovata spettacolarmente mediocre, che è diventata abnorme per il semplice fatto che Marco, come in un’altra celebre puntata con Eugenio Scalfari, ha scelto di non reagire.

Perché avresti dovuto intervenire? 
Per interrompere un’azione che stava diventando pericolosa. Non per il suo significato politico, ma per lo spettacolo che diventava noioso. Non dovevo abbandonare la centralità, dovevo tenere in pugno la regia del gioco, come avevo fatto fino a quel momento. Invece io mi sono messo da parte. Ero talmente soddisfatto dell’andamento del programma e della sua buona riuscita fino a quel momento che ho detto: ci sarà un momento di allegria anche qui. Invece è diventato un momento cupo. Il programma si è ribaltato. Anzi, devo dire che solamente nel nostro Paese un candidato alla presidenza del Consiglio che spolvera una sedia viene valutato come un vincente. Cioè, tutti i commenti internazionali che ho letto erano: “grande talento di Berlusconi come clown”, “pessimo comportamento per un presidente del Consiglio candidato”. Celentano mi ha chiamato subito dopo la fine della trasmissione mi ha detto: “Con questo gesto di spolverare la sedia di Marco, Berlusconi ha perso milioni di consensi“. Invece è successo paradossalmente il contrario, vista la riduzione a teatrino della politica, a gossip, a comportamenti superficiali. Ed è un po’ il male del nostro Paese che questi episodi diventino addirittura protagonisti della scena politica. Al di là delle analisi, dei confronti, delle valutazioni e del peso specifico.

Non pensi però che la crisi dei talk di quest’anno sia causata dal fatto che sono troppi e tutti simili? ­ 
È ovvio, ma la questione di fondo per capire è: perché ce ne sono troppi? Questa è una domanda a cui è necessario dare una risposta, che è questa. Prima di tutto noi ci troviamo di fronte a una crisi della televisione e non dei talk. Una crisi profonda per come abbiamo conosciuto la tv nell’ultimo decennio. Dieci anni fa tra le tre reti Rai e Mediaset si arrivava al 90% dell’ascolto televisivo, il resto lo facevano le televisioni locali. Oggi le sei reti Rai e Mediaset sommate fanno il 57%. Negli ultimi 10 anni abbiamo avuto programmi come quelli di Maria De Filippi, le fiction che superavano il 30% e oggi chi supera il 30% è solo Don Matteo. Però, in generale, programmi simili si sono ridotti intorno al 20% in dieci anni. Questo è quello che è accaduto.

In effetti, talk a parte non vanno bene come una volta nemmeno le trasmissioni di inchiesta.
E non solo. Perché se Milena Gabanelli ha lo stesso tipo di smottamento che abbiamo noi e che ha Ballarò, anche Striscia la Notiziale Iene e perfino Crozza subiscono una erosione del pubblico. Questo significa che il vero problema si manifesta verso la politica e quelle trasmissioni che erano l’alternativa all’’ordine pubblico’ rappresentato dai telegiornali. Queste trasmissioni erano la forma più concreta dei watchdog, i cani da guardia nei confronti del sistema. Erano viste dall’opinione pubblica come gli elementi di maggior controllo nei confronti del potere. Oggi questa credibilità si è indebolita. Il punto drammatico non è la perdita di ascolto di Santoro, perché dal punto di vista analitico e nell’ambito della rete in cui siamo collocati, facciamo ancora dei risultati straordinari.

Forse uno dei problemi è che siamo diventati Casta anche noi agli occhi del pubblico… 
Lo penso solo in parte. Il problema ancora più forte è lo spostamento sul web. Il terremoto oggi si manifesta in una prima fase come crisi della televisione generalista in cui ha retto questo tipo di programmi. In giro ti sentivi dire: “io in televisione vedo solo Servizio PubblicoBallaròReport, il resto non lo vedo”. Quindi era crisi della tv generalista mitigata dal ruolo che avevano questo tipo di programmi. Poi tutti si sono precipitati a costruire programmi che ricalcavano questi format. Da qui è nato l’eccesso di offerta, che per una crisi di sovrapproduzione ha avuto degli effetti sul mercato. E quando il mondo è cambiato la televisione è rimasta in ritardo: i gruppi che si vengono a formare intorno a una trasmissione richiedono da due a due anni e mezzo di lavoro per potersi amalgamare, quindi fai fatica quando capisci che la tendenza è cambiata. Adesso, se vai a vedere le erosioni più sensibili, sono nella tv del mattino e in quella del pomeriggio. Quei talk, infatti, sono quelli che stanno reagendo lentamente ma con grande ritardo alla crisi della politica. Di cui, invece, siamo bombardati a tutte le ore del giorno e della notte.

Insisto: per me c’è pure un problema di crisi di noi giornalisti. Agli occhi di molti, non solo Santoro, ma anche Gomez, sono Casta.­
C’è un principio che sta passando, come dice Fedez, il rapper: ‘prima io mi informavo attraverso i contenitori di politica, oggi io penso di fare direttamente da me’. Non riconosco più il ruolo di mediazione che avevano la Gabanelli, Santoro, Floris o Vespa. Si sta creando una sorta rivolta nell’atteggiamento di consumo dell’informazione, che riguarda anche la carta stampata. E questo era il senso della domanda che avevo posto durante la conferenza stampa di presentazione di Anno Uno. Una domanda che è stata letta come polemica nei confronti de Il Fatto, e invece era banalissima: se io, secondo il giornalista che scrive l’articolo del Fatto, perdo qualche ascoltatore, allora cosa si dovrebbe dire del Fatto? Che è morto perché non vende le copie che vendeva quando è nato? È ovvio che non è così perché noi e il Fatto non siamo morti. Abbiamo tutte le carte per giocare una partita, se capiamo come ci possiamo inserire in questo nuovo scenario. Ma dobbiamo tener presente che si è creata una gigantesca piazza Tahrir, una rivolta nei confronti di tutto ciò che è istituzionale. E dentro questa gigantesca piazza in subbuglio non c’è spazio per considerare in maniera benevola chi è portatore di una mediazione sia istituzionale sia informativa. Perché quelli che fanno informazione sono vissuti, tu dici come casta, io dico come istituzione. Qui viene fuori il problema Grillo. (…)

LEGGI LA SECONDA PARTE DEL COLLOQUIO – CASO GRILLO E LIBERTA’ DI ESPRESSIONE
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