Spassosissimo, farsesco, esorbitante. The wolf of Wall Street è una promessa ampiamente mantenuta. Nuovo capitolo di una trilogia ideale che comprende Quei bravi ragazzi e Casinò, il nuovo arrivato è una commedia degli eccessi che, degli altri due, condivide il respiro da ritratto corale, la struttura bipartita “ascesa/caduta” dell’eroe e la voce narrante che ci guida nei meccanismi della truffa nonché in 3 ore di cinema sommamente gustose. Ma qui la mafia lascia il posto alla finanza e gli anni Ottanta soppiantano i Sessanta-Settanta col risultato che la parabola epocale diventa assai meno tragica e molto più ridicola. Ovvero, con la bulimia di Jordan Belfort (Oscar subito a Di Caprio) e il suo desiderio di toccar tette a caso, sniffare qualsiasi cosa, impazzire di gioia per aver trovato sonniferi fuori commercio e fare una montagna di soldi da – letteralmente – buttare nel bidone, abbiamo aspirato anche tutti i significati. Siamo al potlach terminale. Alla devastazione di un senso che sia uno, se non la ripetuta messa in scena del nulla chiamato denaro, o sogno americano, ovvero l’unico modo assoluto, inconfutabile, di stare al mondo.  

I personaggi di questo strepitoso film sembrano usciti da Porky’s più che dal cinema di Oliver Stone. Come i protagonisti di Quei bravi ragazzi e Casinò non vengono dai piani alti della società, altrimenti sarebbero American Psycho. Sono gli outsiders che si vogliono divertire, vivere alla grande, voglio essere sballati, scopare e guadagnare milioni per case faraoniche o diamanti enormi da regalare a fidanzate-mogli cornificate con qualsiasi prostituta passi in ufficio. Che è un postribolo in cui si torna uomini delle caverne e si lavora pochissimo ma in compenso si organizzano feste con nani volanti, mignotte e majorette. Perché siamo a cavallo dei Novanta, quando la ricchezza immateriale era esplosa e alla fine – per dirla con la battuta più semplice e folgorante di Di Caprio che parla a noi, ovvero ai posteri – se non l’avete vissuto “mi dispiace per voi: siete stati sfigati”. In un questa girandola colorata, piena di toni diversi e tutti perfettamente al loro posto – la sequenza del Lemmon 714 non sfigurerebbe in Una notte da leoni – Scorsese racconta la fame senza oggetto, l’accumulazione inesauribile, la grande abbuffata il cui unico vero scopo è poter affermare “Voi tornate a casa in metro dalle vostre brutte e inutili mogli, mentre io sul mio yacht mi faccio leccare il caviale sulle palle”.

Ritmo a catinelle, carrellate con musica generosamente dispiegata, un Di Caprio stratosferico, mitragliate di idee e dettagli che fanno la differenza. C’è una scena fatta di bicchieri. Bicchieri da cui, in ralenti, tracima whiskey su tavoli da biliardo, su pillole bianche, bicchieri che cadono da parapetti in lussuose ville vomitando liquidi che non riescono a contenere. Ci sono momenti programmatici, come l’incontro al ristorante con Matthew McConaughey, primo mentore del nostro verso la perdizione del dollaro, che per discorsi, gestualità e assurdità resta un totem per l’intero film. C’è il gusto di piazzare pure una scena catastrofista in mare aperto in cui, avendo paura di morire, l’unica premura di Di Caprio è rischiare ancor di più la vita per cercare droga e non crepare sobrio (e c’è qualcosa di Tarantino). Teatro surreale, palcoscenico di autodistruzione dove le donne sono figa e il rapporto conviviale tra maschi una roba che in confronto John Belushi era una novellina, The wolf of Wall Street non ha bisogno di esibire una morale. Che Jordan Belfort sia uno che rapina il prossimo è evidente. Che sia un tossicomane del denaro ce lo dice subito lui. È mosso da pulsione marcia, è una canaglia, ma è anche abile ed è ne seguiamo le gesta. Come i mafiosi e i gangster tanto cari al regista.

Però qui Scorsese è libero da tragicità incombenti, dall’eroina killer di Sharon Stone e dai sentimenti ancora vivi di De Niro, dalla trasgressione mal tollerata di Ray Liotta e dalla morale seppur violenta di Brooklyn. Col risultato che The wolf of Wall Street sembra a tratti la versione classica e composta dell’incubo Spring breakers di Harmony Korine.

Articolo Precedente

All Is Lost: l’epico viaggio di Robert Redford snobbato dall’Academy

next
Articolo Successivo

Commedia, i francesi la fanno meglio

next