Decrescita felice è una delle parole d’ordine più suggestive del Movimento 5 Stelle. Scorrendo le autopresentazioni elettorali dei parlamentari grillini, si scopre che la maggior parte di essi crede fermamente nella teoria della decrescita, o almeno nelle sua versioni semplificate raccontate da divulgatori come Maurizio Pallante e Claudio Messora. 

In effetti è suadente l’idea, basata sul pensiero dell’economista francese Serge Latouche, che diminuendo la produzione sia possibile andare incontro agli obiettivi di un ambiente più sostenibile e di una vita più sana. Al prezzo di un minor reddito, certo, ma ricompensati da una maggiore felicità. 

Beppe Grillo a sua volta ha fatto di tutto per alimentare la suggestione. Durante i suoi comizi, il leader del M5S cita spesso il celebre discorso di Bob Kennedy che, nel 1968, mise alla berlina il Pil come indicatore di benessere, arrivando ad affermare che esso misura “tutto tranne ciò che rende una vita degna di essere vissuta”. Tuttavia, la convinzione che tutti i fenomeni siano più semplici di ciò che sembrano e il rifiuto ostinato della complessità che sembra pervadere il M5S portano spesso Grillo e i suoi a prendere dei granchi clamorosi sul piano economico (e non solo).

 “Questo paese è fallito. Facendo a modo nostro saremo più poveri per i prossimi 4-5 anni, ma senza dubbio più contenti e più felici”, ha detto Grillo in un’intervista andata in onda nell’ultima puntata di Servizio Pubblico. Prima delle elezioni, il comico aveva spiegato “meglio” il suo pensiero a una tv svedese: “Il mercato racconta balle…la crescita non va aiutata, la crescita non porta posti di lavoro…non porta ricchezza, perché crea divario tra chi ha e chi non ha, e questa è la crescita”.

È senz’altro vero che una crescita che si accompagni all’inasprimento delle disuguaglianze aumenta ben poco il benessere di un paese, e che l’eventuale aumento della produttività può mitigare, nel breve periodo, le conseguenze positive sull’occupazione.

Ma le battute superficiali di Grillo sui “più poveri e più contenti” sviliscono decenni di ricerca scientifica di economia della felicità. Alimentano la superstizione secondo cui la complessità è soltanto un trucco per gabbare gli ignari cittadini. E soprattutto offendono i milioni di disoccupati che il mese non riescono nemmeno a iniziarlo, figuriamoci a finirlo.

La letteratura scientifica sulla valutazione multidimensionale del benessere e sull’economia della felicità non è nuova e neppure troppo recente. Le scienze sociali si interrogano sulla questione da decenni e un ricercatore americano, Richard Easterlin, nel 1974 pubblicò sull’American Economic Review uno studio in cui dimostrava con dati relativi alle famiglie americane l’esistenza di una relazione “non lineare” tra reddito e felicità. Quest’ultima aumentava secondo le attese insieme ai guadagni dei cittadini, ma oltrepassata una certa soglia di reddito, diventava stazionaria o, addirittura, tendeva a ridursi. Il “paradosso di Easterlin” (così è stato battezzato dal pensiero più ortodosso) è stato successivamente confermato da una robusta evidenza empirica, con studi replicati nel tempo (dopo il 1974) e nello spazio (tra differenti aree geografiche).

La teoria della decrescita felice può dunque per alcuni aspetti contare sul supporto dei dati, che mostrano come, oltre una certa soglia di reddito, i soldi smettano di fare la felicità.  
Ma questo risultato non è univoco. La relazione, infatti, non è lineare e, quindi, è più complessa. Quello che possiamo dire è che non solo i soldi fanno la felicità. Il che tuttavia non significa, per usare la terminologia dell’architetto Van der Rohe, che less is more, o che meno sia meglio.

Ci sono, anzi, fondate argomentazioni della psicologia sperimentale a supporto del fatto che una riduzione di ricchezza non possa che essere associata a sofferenza o infelicità.
Un risultato standard della letteratura scientifica, dovuto in particolare ai lavori di Daniel Kahneman (vincitore nel 2002 del premio Nobel per l’Economia) è quello dell’effetto dotazione: le persone, cioè, valutano un bene in loro possesso più di quanto loro stesse pagherebbero per averlo.

Un secondo aspetto, connesso al primo, è noto come avversione alle perdite: la sofferenza di una persona che perde 100 euro, per intenderci, ha una intensità di più di due volte e mezzo superiore rispetto alla soddisfazione di chi ne guadagna 100. Il risultato è stato corroborato da diversi esperimenti di laboratorio e mostra che la cornice mentale della perdita è un’anticamera certa dell’infelicità.

In tempi di recessione e di profonda crisi, dopo anni di austerità e inasprimento della pressione fiscale, ogni riduzione della ricchezza aggiungerebbe un ulteriore peso sul bilancio già magro delle famiglie italiane. Siamo sicuri che sia indolore la rinuncia al proprio standard di vita?

L’esistenza di una relazione non lineare tra reddito e felicità certamente suggerisce di arricchire l’analisi economica con una maggiore attenzione per tutte le dimensioni che concorrono a determinare il benessere individuale e sociale (e proprio in tale direzione si muovono le ricerche dei due autori di questo articolo).
Tuttavia, lo ripetiamo, un conto è declinare con più petali la rosa del segno “più”. E un altro è farla appassire, sicuri che da quello “meno” possano sbocciare felicità e progresso sociale.

*Articolo scritto con Luciano Canova: Ricercatore Cresa (Università San Raffaele)

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