I Conquistatori, nella solita ottusità, non intesero le sue straordinarie qualità e non ne colsero l’importanza culturale e alimentare. Forse vedendo l’uso che ne veniva fatto durante le cerimonie religiose, o forse per ciò che significava il suo nome nella lingua dei conquistati, ne ebbero paura. Imposero la distruzione dei silos dove veniva conservato “La Forza” e ne proibirono la coltivazione, sostituendola con grano e mais. La cosa più grave fu però cambiargli nome in Salvia Hispanica dopo averne portate alcune piante in patria dove se ne persero immediatamente le tracce. Anche perché il Chia, “La Forza”, come aroma non ha niente a che fare con le nostre numerose salvie.

Nel centro e sud America hanno scoperto i suoi benefici e straordinari effetti dopo aver riconquistato la loro ancestrale memoria alimentare, anche grazie a progetti governativi Argentini, Brasiliani, Messicani e Guatemaltechi nel cui altopiano sono state, per nostra fortuna, rintracciate varietà selvatiche ora nuovamente coltivate. Inoltre il commercio equo e solidale, che ne ha compreso tutte le potenzialità, si è già attrezzato per la sua distribuzione nel mondo.

Messo un cucchiaio di piccoli semi di Chia in una tazza con acqua, la mattina successiva troverete una gelatina che renderà facile ogni evacuazione, proteggendo con un salvifica membrana tutto il vostro sistema digestivo da attacchi patogeni (la rete, ad esempio qui e qui, già abbonda di importanti e interessantissime informazioni), regola la pressione sanguigna e fornisce dosi massicce di tutto ciò che ci necessita per un’alimentazione più che corretta: dagli Omega 3 ai 6, al ferro, al calcio ed altro e dà come effetto immediato una concretissima sensazione di sazietà.

Sto imparando ad usarlo, e percepitone il sottile aroma di diospero, va da sé che ho provato a metterlo in yogurt e miele, su delle uova affrittellate e nell’impasto di un pane come su un riso bollito con la solita curcuma.
Poi d’improvviso una “illuminazione”: trasformarlo in ostrica vegetale depositando tutti i suoi morbidi semi, fasciati di abbondante gelatina, in un cucchiaio da portata, condendolo, con mia massima soddisfazione, con due gocce di limone e una piccola grattugiata di profumato pepe nero. Nei prossimi giorni cercherò di comprendere quanta acqua serve per ammorbidire tutti i suoi semini (alcuni neri e alcuni bianchi che i brasiliani chiamano i primi “il re” e i secondi “la regina”) senza permettere la fuoriuscita di tutta la gelatina e tentando così la formazione di un “caviale vegetale” da trattare come la più seria tradizione persiana. Dovrò condirlo dunque con un non niente di burro fuso, cipolla bianca tritata, succo di limone, pepe nero e uovo sodo spiaccicottato, faccendone così un impastò spalmabile su fettine di pane.

Sono solo all’inizio, se fra voi c’è chi già lo usa o chi lo userà, non perdiamoci di vista: teniamoci informati. Non perderne mai più  la memoria è obbligatorio, per la nostra salute, per la salute di chi lo coltiva e per quella di tutto il pianeta.

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