“L’amnistia a pagamento”, come era stata definita da Pdl e Lega, si è dimostrata un flop e l’annunciata invasione di orde di immigrati regolarizzati dal governo è rimasta solo sulla carta. Parliamo della Sanatoria 2012, la normativa varata dal ministro per l’Integrazione Andrea Riccardi e rivolta a quei datori di lavoro che volevano fare uscire dalla clandestinità i propri dipendenti immigrati concedendo loro un permesso di soggiorno. Il Carroccio era arrivato a dichiarare che alla fine i migranti regolarizzati avrebbero toccato quota 800mila, con perdite per la sanità pubblica “nell’ordine di 43 milioni di euro nel 2012 e 130 negli anni a seguire”.

I dati forniti dal ministero dell’Interno restituiscono però un’altra realtà: nel mese messo a disposizione per la presentazione delle domande, dal 15 settembre al 15 ottobre, le schede presentate hanno superato di poco quota 105mila, numeri bel al di sotto delle stime del ministero guidato da Riccardi che, come ricorda Fulvia Colombini della Cgil, “aveva previsto dalle 3 alle 400mila richieste”.

L’altro aspetto che aveva fatto saltare la mosca al naso al centrodestra era a chi era destinata la sanatoria. Se nel 2009, quando Silvio Berlusconi era a Palazzo Chigi e Roberto Maroni al Viminale, il provvedimento era rivolto solo a colf e badanti, con l’attuale legge possono uscire dalla clandestinità tutti i lavoratori dipendenti: dagli edili a quelli impiegati nelle fabbriche e nell’agricoltura. Una differenza non da poco che aveva trasformato la normativa in “atto criminale, razzista nei confronti dei lavoratori italiani” contro il quale si sarebbe dovuta scatenare “una guerra totale” (Maroni), fino alla stessa “sopravvivenza del governo dei tecnici” (Maurizio Gasparri). Stiano tranquilli perché i diritti dei lavoratori italiani sono salvi: dati alla mano, i datori che hanno presentato domanda per regolarizzare forme di collaborazione non domestica sono meno di 12mila in tutta Italia: circa il 10 per cento del totale.

Ma perché questo flop? “E’ a causa della combinazione di due fattori – risponde Riccardo Tromba dello sportello legale del Naga, una delle principali associazioni che tutelano i diritti dei cittadini stranieri – Da una parte il costo elevato, dall’altra l’esito incerto della procedura”. I datori che intendevano regolarizzare i dipendenti stranieri, oltre a una tassa di 1000 euro (che in caso di diniego non viene restituita) dovevano versare allo Stato almeno gli ultimi sei mesi di contributi evasi. Se nel caso del lavoro domestico e della cura alla persona si viaggia su circa 4000 euro, la cifra sale fino a 14mila per gli altri settori. “Sappiamo bene che il 90 per cento delle domande presentate non provengono da colf e badanti – sottolinea il volontario del Naga – E’ che così facendo il permesso di soggiorno costa molto meno. Un particolare non da poco perché chi mette mano al portafoglio è quasi sempre il migrante e non il datore di lavoro”. Anche la “paternità” delle domande arrivate al Viminale confermano questa tesi: al primo posto, con oltre 13mila richieste, ci sono i marocchini seguiti dai cittadini del Bangladesh a quota 12mila. Nazionalità che, secondo gli esperti, poco hanno a vedere con la cura della persona o della casa. Quella ucraina è “terza” con 10mila richieste di regolarizzazione.

Prima dell’apertura della finestra per la sanatoria, i volontari del Naga, parlavano di un “provvedimento volutamente confuso per placare i mal di pancia di alcuni partiti” che sostengono il governo dei tecnici. Confusione che, come ha documentato la video-inchiesta del fattoquotidiano.it sul mercato illegale delle regolarizzazioni, va a braccetto con le truffe. “Una previsione azzeccata, visti i numeri”, chiosano oggi.

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