Dialogare con la mafia per fermare lo stragismo è un reato? Se lo chiedono allarmati gli indagati eccellenti, intercettati dai pm di Palermo. E non solo. Preoccupato dall’evoluzione dell’indagine della Procura del capoluogo siciliano sulla trattativa mafia-Stato, per il rischio di una sorta di impeachment morale della classe politica italiana, se lo è chiesto persino il Quirinale. Nessuno, in Procura, è disposto a confermarlo, ma tra i 120 faldoni dell’inchiesta palermitana, ormai giunta alle battute finali, c’è anche una lettera della Presidenza della Repubblica, indirizzata nei primi mesi di quest’anno al procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito, nella quale si chiedono chiarimenti sulla configurabilità penale della condotta degli esponenti politici coinvolti nell’indagine.

Facendo riferimento a una sollecitazione dell’ex senatore Nicola Mancino, nello scorso dicembre particolarmente preoccupato per il suo coinvolgimento nell’inchiesta, il Quirinale avrebbe sollecitato informazioni sulle inchieste segnalando l’opportunità di raggiungere una visione giuridicamente univoca tra le procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta, tutte parallelamente impegnate nella verifica del ruolo di ex ministri e parlamentari nel biennio della trattativa a suon di bombe, ma con prospettazioni del tutto differenti. Non è un mistero, infatti, che le tre Procure sin dall’inizio dell’indagine sulla trattativa abbiano manifestato – in particolare, durante una tornata di audizioni davanti alla commissione Antimafia – notevoli divergenze sulla questione dell’imputabilità dei politici coinvolti. I pm nisseni e quelli fiorentini appaiono propensi a credere che gli esponenti delle istituzioni chiamati in causa nella trattativa furono costretti ad accettare la logica del negoziato imposta da Cosa Nostra con il terrore, e dunque sarebbero da ritenersi “vittime” dell’intimidazione mafiosa, ovvero soggetti penalmente non perseguibili. La procura di Palermo, invece, la pensa in tutt’altro modo: l’aggiunto Antonio Ingroia e i pm Lia Sava, Nino Di Matteo e Francesco Del Bene ritengono che quella dell’apertura dialettica tra mafia e Stato sia un’iniziativa consapevolmente adottata dai politici e dagli uomini degli apparati, convinti in questo modo di fermare lo stragismo, ma anche di salvare la pelle.

Inutile chiedersi quale sia l’interpretazione più apprezzata da Mancino che, il giorno dopo esser stato interrogato a Palermo, il 7 dicembre scorso, si affretta a telefonare al magistrato Loris D’Ambrosio, uno dei più stimati consiglieri del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Un’intercettazione, oggi agli atti dei pm palermitani, rivela che, al telefono con D’Ambrosio, Mancino si abbandona apertamente a uno sfogo preoccupato, sostenendo di essere un “uomo solo”. Ma le telefonate agli atti dell’inchiesta sarebbero più di una. Mancino avrebbe chiamato direttamente il procuratore di Palermo Francesco Messineo, cercando di evitare di essere posto a confronto con l’ex Guardasigilli Claudio Martelli. Il faccia a faccia in Procura si tiene però regolarmente: Martelli conferma di aver chiesto a Mancino le ragioni dell’iniziativa investigativa avviata nel ’92 dal Ros di Mario Mori con l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino. Mancino, invece, continua a negare con decisione.

Nei primi mesi dell’anno i palazzi della politica sono in fibrillazione per l’evolversi delle indagini: ci si interroga su come minimizzare i possibili danni dell’inchiesta palermitana sulla trattativa. Qualcuno, tra gli indagati eccellenti, si lamenta – sempre al telefono – dell’inerzia del procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito davanti a un problema cruciale per l’intera politica italiana: si può processare un pezzo dello Stato per avere aperto un canale di comunicazione con Cosa Nostra, allo scopo di evitare altre stragi? C’è chi, conversando alla cornetta, arriva persino a rivelare di aver interessato della questione il capo della Dna Piero Grasso, che però avrebbe minimizzato la portata dell’inchiesta. Millanterie? È in questo periodo che il Quirinale avrebbe inviato la sua richiesta di chiarimenti al pg Esposito, sollevando l’esigenza di giungere a una visione univoca condivisa dalle tre procure. Tutto il resto è cronaca. Nei primi giorni di marzo, il pg Esposito richiede al procuratore nisseno Sergio Lari l’invio degli atti dell’inchiesta su via D’Amelio, entrando a gamba tesa – con un’iniziativa senza precedenti nell’attività del distretto giudiziario siciliano che indaga sulla morte di Falcone e Borsellino. Al punto che Lari commenta attonito: “Sono disorientato”. La richiesta di Esposito viene letta inizialmente come la premessa di una possibile azione disciplinare nei confronti della procura nissena per aver violato la privacy dei tanti nomi eccellenti contenuti nell’ordinanza di custodia cautelare del gip Alessandra Giunta, di cui vengono riportate le deposizioni, ma anche le tante contraddizioni, le reticenze, le omissioni e le bugie.

Oltre alle risposte di Mancino, ci sono quelle degli ex ministri Claudio Martelli e Giovanni Conso (indagato per false informazioni al pm, ndr), degli ex presidenti del consiglio Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi, dell’ex presidente dell’Antimafia Luciano Violante. Ma il vero significato di quella richiesta viene fuori quando, ancora una volta, Mancino prende il telefono, stavolta per contattare direttamente Esposito e congratularsi: quella iniziativa è “un segnale forte”, dice, una mano tesa “in difesa dei politici”. Le sue parole restano ancora una volta incise nelle bobine delle intercettazioni. E oggi svelano un altro pezzo dello Stato che frana moralmente davanti alla ricerca della verità.

di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza

Articolo Precedente

Alla Camera torna la legge Bavaglio. E si prepara un nuovo scontro governo-Pdl

next
Articolo Successivo

Il consigliere di Napolitano D’Ambrosio: “Tante telefonate e lettere da Mancino”

next