“Emerge tutta l’intensità del dolo degli imputati perché nonostante tutto hanno continuato e non si sono fermati né hanno ritenuto di dover modificare radicalmente e strutturalmente la situazione al fine di migliorare l’ambiente di lavoro e di limitare per quanto possibile l’inquinamento ambientale”. Sono state depositate poco dopo le 12 al Tribunale di Torino le motivazioni della sentenza del processo Eternit. Il primo commento del pm Raffaele Guariniello: “E’ una pietra miliare della giurisprudenza perché afferma dei principi che non valgono solo nel singolo caso ma anche per il futuro. Come il dolo e il disastro ambientale, anche dell’ambiente esterno. Sono tutti principi che spero siano preziosi per i giudici italiani ma anche per tutto il mondo perché  purtroppo queste tragedie si sono verificate e si stanno ancora verificando in tutto il mondo”.

Il documento spiega, in 733 pagine, le ragioni della condanna in primo grado dei due ex manager della multinazionale dell’amianto, Stephan Schmidheiny e Louis De Cartier, a 16 anni di carcere pronunciata lo scorso 13 febbraio. I due dirigenti erano accusati di disastro ambientale doloso e omissione dolosa di cautele antinfortunistiche. Il processo con l’Eternit, il più grande mai celebrato in Italia per il disastro dell’amianto, conta migliaia di casi tra morti e malati per malattie connesse. “Non può essere riconosciuta alcuna attenuante – scrive il giudice Giuseppe Casalbore – mentre risulta evidente che gli imputati hanno agito in esecuzione del medesimo disegno criminoso. Le motivazioni della sentenza raccontano le fasi del più grande dibattimento mai celebrato per questioni legate alla nocività dell’amianto: fra morti e malati sono stati presi in esame diverse migliaia di casi. Inoltre secondo i magistrati gli imputati “hanno cercato di nascondere e minimizzare gli effetti nocivi” del minerale killer.  

“Il comportamento degli imputati assume caratteri di notevole gravità con riferimento alla pluralità dei luoghi e degli stabilimenti interessati, con riferimento alla notevole durata della condotta e con riferimento alla straordinaria portata dei danni e del pericolo che ne sono conseguiti e che tuttora continuano a conseguire”, ma aggiunge il giudice estensore delle motivazioni che la gravità dei reati “commessi, poi, risulta addirittura accresciuta se si passa a valutare l’intensità del dolo che ha costantemente accompagnato la condotta criminosa posta in essere dagli imputati nel corso degli annuo di rispettiva gestione della società Eternit. E’ sintomatico – prosegue Casalbore – a tal riguardo, ricordare la domanda emersa dalla testimonianza Blasotti. La signora Blasotti Romana, presidentessa dell’Associazione familiari vittime Amianto, ha perduto cinque persone in famiglia: il marito, la sorella, il nipote, la cugina e la figlia; tutte morte per mesotelioma pleurico”.

Il giudice quindi riporta la testimonianza resa in aula quando Blasotti disse: “Come poteva succedere che una persona potesse andare a lavorare e morire di lavoro” e aggiunge che aveva visto “per un periodo di tempo tanti manifesti di morte appesi ai muri della fabbrica quando portavo i bambini a scuola”. E si era chiesta: “Perché continuare?”. E’ da questa domanda che emerge, secondo Casalbore, l’intensità del dolo, perché “sia De Cartier che Schmidheiney hanno continuato e non si sono fermati né hanno ritenuto di dover modificare radicalmente e strutturalmente la situazione, al fine di migliorare l’ambiente di lavoro e di limitare per quanto possibile l’inquinamento ambientale”. 

La pericolosità dell’amianto era nota fin dagli anni ’60. “Fin dal 1968, sulla base degli studi presentati da Selikoff, presso la Saiac si discuteva dei pericoli per la salute derivanti dalle polveri di amianto” osserva il giudice. Proprio il fatto che fin da quella data si discuteva del problema esclude la possibilità di un dolo di minore intensità per l’imputato De Cartier, ultraottantenne barone belga che risponde delle accuse per il primo periodo contestato. Già nel 1972 era notorio che l’amianto fosse un killer senza pietà, tanto che veniva consigliato alle imprese di impiegare operai già quarantenni.

Nel processo Eternit si contestava agli imputati il disastro doloso e l’omissione di cautele antifortunistiche negli stabilimenti italiani della Eternit a Casale Monferrato, Cavagnolo, Rubiera e Bagnoli. Solo per i fatti contestati nei primi due stabilimenti gli imputati sono stati condannati. “Gli imputati devono essere prosciolti dai reati di disastro commessi in Napoli Bagnoli e Rubiera e dai reati di dolosa omissione di cautele antinfortunistiche commessi fino al 13 agosto 1999, perche’ tali reati risultano estinti per prescrizione”.

L’istruttoria dibattimentale ha comprovato, con certezza, come l’attività di indiscriminata e scriteriata cessione del polverino abbia costituito un fenomeno tipico ed esclusivo di Casale Monferrato”. Sulla pratica di cedere ai dipendenti degli stabilimenti il “polverino” (materiale che risulta dalla tornitura) definito “perdurante sorgente di inquinamento”, per quanto riguarda lo stabilimento di Casale secondo i giudici è emerso “con certezza come la pericolosità del polverino fosse perfettamente a conoscenza dell’apparato dirigenziale di Eternit Spa”. Circostanza emersa, sottolinea Casalbore, da diverse testimonianze durante il dibattimento che “hanno finito per rendere evidente sia la conoscenza circa la pericolosità del polverino, sia la mancata adozione di seri e concreti provvedimenti per evitarne la diffusione all’esterno della fabbrica“.

“Gli imputati erano perfettamente a conoscenza di tutto ciò che veniva effettuato negli stabilimenti italiani, sia in ordine alle attività direttamente connesse al ciclo produttivo, sia in ordine a tutte le altre attività per così dire collaterali, ma che comunque comportavano la necessità di disporre di beni e di cose appartenenti all’azienda, e hanno consentito che esse continuassero, nonostante avessero pure ben presente l’enorme pericolosità derivante per la popolazioni vicine agli stabilimenti industriali”. Anche se materialmente i due vertici condannati non hanno personalmente abbandonato materiale di scarto in discariche definite “di fortuna” o “provveduto personalmente alla cessione a privati cittadini di feltri e polverino” i giudici precisano che “è evidente che la mancata adozione da parte dei responsabili della società di ogni provvedimento tendente a rimuovere la situazione esistente, ad impedire la realizzazione degli effetti di tali condotte e, anzi, la consapevolezza che i vertici della società non solo fossero a conoscenza di quanto avveniva, ma ne autorizzavano e ne regolamentavano l’effettuazione, non può non aver contribuito a rafforzare negli esecutori materiali della condotta del reato il proposito di continuare in tale attività criminosa”. Quindi Schmidheiny e De Cartier nei periodi di rispettiva gestione “con la posizione assunta nella conduzione dell’azienda, hanno contribuito in modo determinante alla realizzazione delle relative condotte criminose”.

Per i magistrati di Torino: “Le attività di contaminazione dei siti industriali derivanti dalle carenze strutturali, quale la assoluta inidoneità dei sistemi di aspirazione ovvero quelle derivanti dalle scelte sciagurate effettuate dalla direzione industriale, quali quelle di inquinamento delle acque e di frantumazione a cielo aperto degli scarti di produzione, sono direttamente riconducibili ai vertici societari e, cioè, ai due imputati che avevano la responsabilità degli investimenti finanziari e delle scelte di politica industriale”. 

“De Cartier e Schmidheiny si sono direttamente occupati degli stabilimenti italiani, sono risultati perfettamente a conoscenza delle condizioni in cui tali stabilimenti si trovavano, della pessima qualità dei relativi ambienti di lavoro, della pericolosità delle specifiche lavorazioni, dell’elevata mortalità degli operai e dei cittadini che ne derivava, delle richieste – sempre più pressanti – che le organizzazioni sindacali avanzavano e mai nulla hanno fatto o hanno preteso che i responsabili dei singoli stabilimenti industriali facessero per migliorare tali condizioni”. Secondo Casalbore, è da rifiutare la linea di difesa dei due imputati secondo cui i due non avrebbero avuto un ruolo di gestione effettiva: “L’asserita estraneità degli imputati alle vicende degli stabilimenti Eternit italiani – si legge nelle motivazioni – il loro preteso ruolo di direzione e coordinamento e l’asserita mancanza di effettiva gestione da parte loro di Eternit Italia sono tutte circostanze di fatto smentite clamorosamente dalle risultanze istruttori”. Casalbore aggiunge, anzi, che “emerge che negli stabilimenti italiani si operava solo in funzione delle direttive impartite dai rispettivi incaricati degli imputati”. 

Inoltre gli interventi per migliorare le condizioni di lavoro negli stabilimenti italiani sono stati “timidi” e con il solo fine dei realizzare maggiori guadagni: “I timidi interventi che sono stati faticosamente e lentamente realizzati, peraltro unicamente sotto la gestione Schmidheiny, anche se indirettamente hanno prodotto un leggero miglioramento della situazione complessiva, sono stati comunque predisposti esclusivamente per finalità produttive, solo nell’intento di realizzare utili e guadagni maggiori, ma non certamente perché ci si preoccupasse della salute dei lavoratori o perché ci si attivasse per interrompere la lunga spirale di morti che era in atto”.

Intanto si è aperta oggi a Torino, ed è stata aggiornata al 4 giugno per una questione di procedura, l’udienza preliminare per Karel Vinck, un uomo d’affari belga che risponde di omicidio colposo per i ruoli che ha ricoperto nella multinazionale dell’amianto Eternit.  Il procedimento è una costola della maxi-inchiesta della Procura di Torino. Questo nuovo filone riguarda il decesso, dovuto secondo l’accusa al contatto con il minerale nocivo, di tre persone che lavorarono in uno stabilimento di Cavagnolo (Torino) riconducibile alla galassia Eternit. La procura di Torino ha chiesto il rinvio a giudizio di Vinck e di tre italiani che ebbero incarichi dirigenziali.

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