Anche guardandola dal punto di vista del cinema, la Francia che si avvia alle elezioni sembra un Paese normale, civile, culturalmente aperto, ricco di interessi, plurale. Un Paese, perciò, lontano anni luce dal nostro. Il cinema che si consuma nelle sale in Francia è meno omologato, meno costretto alla sola attualità del momento di quello che si consuma in Italia. Per dire, mercoledì prossimo escono in Francia, al cinema e non in dvd, due “novità” italiane: non i vari Immaturi o Natali a Cortina, peraltro benemeriti in patria perché risollevano finanziariamente le sorti del nostro cinema; no, le due novità sono Vaghe stelle dell’orsa di Luchino Visconti e I giorni contati di Elio Petri.

Due film carichi di storia, che hanno rispettivamente la bellezza di quarantasette e cinquant’anni e che qualche distributore francese ritiene evidentemente capaci di attrarre i nostri cugini (il film di Petri è addirittura inedito in Francia, e questa è la sua prima uscita oltralpe). Non si contano i film di tutti i tipi e di tutti i tempi che si possono normalmente vedere in sala accanto ai blockbuster del momento: il cinema è davvero un compagno quotidiano nella vita dei francesi. Compagno di svago e strumento di pensiero, indifferentemente. Intendiamoci, a guidare il box office sono, come è ovvio, per la stragrande maggioranza gli stessi film che incassano milioni di dollari in tutto il mondo: ma è il rapporto articolato con il cinema che dà la misura di un paese normale nelle differenze che lo attraversano. Del resto non è un caso che in Francia si vendano in un anno quasi il doppio dei biglietti che si vendono in Italia, a popolazione più o meno uguale (215 milioni contro 110, nel 2011). Né è un caso che una rivista gloriosa ma anche certamente non nazionalpopolare come i Cahiers du cinéma abbia una tiratura di trentacinquemila copie e una vendita di ventiduemila a numero. Attenzione, il tutto senza alcuna prosopopea intellettuale: anni fa la Cinémathèque dedicò una rassegna a Alvaro Vitali.

Qualche tempo fa Roberto Faenza si chiedeva sul Corriere della sera perché un film bello (anche se a mio parere doppiato malissimo in Italia) come l’iraniano Una separazione di Asghar Farhadi fosse stato visto in Francia da più di 800 mila spettatori mentre da noi non era arrivato nemmeno a 80 mila. E addebitava questa differenza alla distribuzione, dominata in Italia dai multiplex. Certo, questo influisce certamente, ma i multiplex ci sono anche in Francia.
E’ un rapporto complessivamente molto diverso con la cultura quello che ci penalizza come paese: una diversità che significa difesa della lingua, della lettura, del teatro, del cinema, del lavoro intellettuale (magari a costo di fare leggi talvolta troppo rigide e poco produttive come la famigerata Hadopi contro la pirateria internet). E minore omologazione: infatti un libro come Indignatevi! è uscito in Francia, suscitando un clamoroso caso editoriale.

In fondo è questa normalità culturale francese che fa sì che la campagna elettorale, pure aspra, non abbia quei toni furibondi e apocalittici che assume da noi l’appuntamento delle elezioni politiche. C’è un fondo condiviso che fa da collante per l’intero Paese (quello stesso fondo che ha fatto sì, come riporta il Fatto di ieri, che ai funerali di un ex leader della Resistenza francese fosse presente Sarkozy), e che mette la cultura al primo posto. Non è questione di esterofilia, ma quando potrò vedere anch’io uscire nei cinema italiani un “nuovo” vecchio film di Truffaut, allora mi convincerò che siamo finalmente anche noi un paese normale.

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