Mercoledì 11 aprile il Corriere della Sera dedicava un articolo alla “fabbrica delle start up” sponsorizzata dal Ministro Passera attraverso una task force con imprenditori, docenti e professionisti e un braccio operativo l’associazione italiana Start up.  Riporto tra virgolette le parole dello stesso Passera al Corriere “L’obiettivo è di arrivare a concepire un pacchetto di misure di varia natura – amministrative, fiscali, di semplificazione burocratica, di credito d’imposta e in generale di incentivi, di sostegno all’internazionalizzazione – per alimentare in Italia un ambiente nuovo che incoraggi e promuova la creazione e la crescita di imprese innovative”.

Niente da dire, l’obiettivo è nobilissimo e per chi come il sottoscritto pensa da più di 30 anni che questo Paese debba  fare qualcosa di serio al più presto per favorire la nascita di nuove imprese è stata una magnifica notizia (semprechè il programma venga effettivamente portato avanti dalla politica e non rimanga lettera morta o peggio una mera operazione mediatica).

Nonostante i miei timori il solo fatto di averne parlato mi fa sperare che finalmente il tema stia per affrancarsi, finalmente, dal ghetto culturale in cui la politica italiana l’ha relegato da sempre. Il tema oggi è più che mai di attualità perché è evidente che è necessario un forte impegno “sistemico” per far sì che la perdita di posti di lavoro causata dalla crisi economica sia almeno in parte compensata dalla nascita di nuove imprese.

Due cose però mi preoccupano molto:

a) l’eventuale limitazione  ai benefici del pacchetto start up solo a quelle del settore digitale: sarebbe un errore in un Paese che deve fare molta strada in questo campo, nessuno lo nega, ma dove non mancano aspiranti imprenditori capaci di esprimere idee innovative di successo in campi della cosiddetta “old economy” o di altre nuove tecnologie diverse dal digitale come, ad esempio, quelle del mondo “Life Science”.  Sarebbe un grave errore lasciare fuori da questo auspicabile ecosistema di benefici tutti quelli, e sono tanti, che non hanno un’idea “digitale”.   Insomma è come dire che gli Armani, i Della Valle, i Renzo Rosso del futuro non vanno aiutati perché fanno scarpe o magliette, dimenticando che il settore moda, pur non essendo tecnologico in senso stretto, è uno dei pochi che sta crescendo..

b) Parrebbe che l’altra limitazione riguardi i giovani nel senso che le start up vanno bene solo se le fanno i giovani sotto i 30 anni mentre se le fanno, ad esempio, ex manager o tecnici cinquantenni non sono degne di avere un aiuto.  Questa impostazione mi sembra sbagliata perché persone che hanno già maturato una buona esperienza nel business possono essere molto utili, anzi quasi indispensabili, per avviare una nuova attività insieme a dei giovani: in secondo luogo perché significa negare che oltre all’enorme problema dei giovani ne esiste un altro altrettanto enorme che riguarda decine di migliaia di persone mature che hanno perso il posto nell’industria, persone abbandonate a sé stesse che ovviamente non possono più contare sui genitori, non sanno come mantenere i propri figli nonostante abbiano spesso grandi capacità tecniche e utilissime esperienze aziendali.

Era ora che la politica si accorgesse dell’estrema necessità di fare qualcosa per creare un sistema che favorisca la nascita di nuove imprese: speriamo che i due paletti, solo digitale e solo giovani, non ci siano, sarebbe un errore gravissimo, una straordinaria occasione perduta

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