Prima che piombassero sulla scena i fenomeni musicali creati in laboratorio, la regina del Pop era lei: Whitney Elizabeth Houston, figlia e nipote di grandi cantanti soul, voce possente e animo fragile. La stessa fragilità che ha riservato per lei il cliché più abusato per i grandi della musica: una morte improvvisa in una camera d’hotel. E più precisamente il Beverly Hilton di Los Angeles, sede di centinaia di festoni hollywoodiani che l’avevano vista protagonista assoluta fin dagli anni Ottanta e fino a quando, dopo un matrimonio devastante con il produttore Bobby Brown, Whitney si era arresa alla droga ed era piombata in una depressione che aveva deturpato la splendida voce e il corpo mozzafiato.

Era il 1985 quando la bellissima modella figlia della cantante gospel Cissy Houston e nipote di Dionne Warwick debuttava con un album dirompente che portava il suo nome. Un debutto di quelli che non si scordano: 16milioni di copie vendute, un Emmy, un Grammy, un’infinità di altri premi e alcune canzoni che resteranno nella storia del pop (Saving all my love for you, How will I know, All at once e la splendida Greatest love of all). Da allora, solo trionfi per la Houston, regina degli anni Ottanta nonostante la concorrenza spietata delle tante cantanti commerciali che in quegli anni, come lei, muovevano i primi passi (Madonna su tutte). I dischi successivi avrebbero confermato che non si trattava di un fenomeno passeggero come se ne vedono tanti: in 25 anni Whitney avrebbe venduto più di 170milioni di dischi.

Ma un talento cristallino come quello della Houston non si accontentava più della musica. Nel 1992 ha regalato al cinema uno dei suoi film più amati: The Bodyguard. Metti insieme una grande star della musica, il più grande attore del momento (Kevin Costner), una manciata di canzoni indimenticabili e persino una pellicola che non è certo un capolavoro diventa un cult planetario, un fenomeno commerciale capace di raccogliere più di 400milioni di dollari al botteghino, consacrando alla storia della musica un altro brano che resterà immortale: I will always love you.

Era diventata un Re Mida in gonnella, la talentuosa Whitney: qualsiasi cosa toccava diventava oro, anzi platino. Nel 1991, con gli Stati Uniti impegnati nella guerra del Golfo, era persino riuscita a far entrare in classifica la versione dell’inno americano (Star spangled banner) cantata al SuperBowl. Una performance da brividi, che farebbe commuovere persino il nemico più convinto della democrazia a stelle e strisce.

E sarà tutto così fino ai primissimi anni del 2000, con trionfi planetari, duetti importanti e persino un premio Oscar per la miglior canzone originale nel 1998 con When You Believe (in coppia con Mariah Carey). Fino al 2000, dicevamo, perché poi è calato il sipario sull’immagine da brava ragazza che aveva circondato Whitney Houston fin dai suoi esordi. Il matrimonio con il produttore Bobby Brown l’aveva minata nel fisico e nella psiche e proprio con il turbolento marito era entrata con rabbioso spirito di autodistruzione nel tunnel (termine abusato ma tremendamente evocativo) della droga. La vicenda umana e professionale della Houston potrebbe anche interrompersi qui, perché la donna degli anni successivi non è più lei: magrissima, un viso minato dagli eccessi, una voce che non esiste più. Le foto sono impietose e ci offrono il desolante spettacolo dell’ennesimo mito della musica che non ha retto il peso del successo e si è lasciato travolgere da tutto e tutti. Whitney lo sa e prova a disintossicarsi. Nel 2009 torna in pista con I look to you e per tentare di promuovere un disco francamente brutto è costretta al giro delle sette chiese per talent show e varietà televisivi (è stata anche ospite dell’X Factor italiano). Ma la voce non c’è più e persino i fan la fischiano durante i concerti. Artisticamente Whitney Houston è morta nel 2009, fallendo l’ultima occasione. Fisicamente è morta ieri, al Beverly Hilton di Los Angeles. Emotivamente è morta tanti anni fa, quando la ragazza che cantava indipendenza, forza di volontà e carattere si è arresa al suo lato fragile. Le parole che si usano quando scompare una star di questo calibro sono giocoforza banali e retoriche. Ma alzi la mano chi può sostenere, obiettivamente e in buona fede, che la voce di Whitney Houston non sia stata davvero una delle più belle della storia della musica pop. Ma il talento non è bastato, e come per milioni di altre donne del pianeta, un pessimo matrimonio ha vinto su tutto il resto. Perché nessun Grammy potrà mai salvarci dalle miserie umane e dalle loro devastanti conseguenze.

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