di Aldo Nove

Cinquant’anni di pruderie mozzafiato. Al centro c’è l’amore, quello romantico che di più non si può. Lui bello con gli occhi di ghiaccio, lei biondissima e da infarto. Scopo ultimo delle loro vite è baciarsi perché si amano, e lo fanno, sempre, nell’ultima vignetta: avvinti come l’edera. Tutto quadra in un’Italia che non c’è più eppure resiste tra le pagine del fumetto che è diventato orgoglio dell’immaginario nazionale. In fondo qualcosa di fragrante, casereccio, eccellenza di quei buoni fumetti di una volta che resistono al tempo perché cavallo vincente non si cambia, neanche nella fantasia, ed è bello trasmettersi prevedibili brividi da generazione a generazione. La trama, quella della fiaba, è in fondo sempre la stessa: c’è un ostacolo che se superato incrementerà il capitale di sentimenti (e lussuriosi sensi) dei due bei delinquenti innamorati: scatta l’azione, l’ostacolo viene vinto e trionfa l’amore.

È un amore tanto noir quanto rassicurante, un po’ come l’esotismo vagamente futurista di Jules Verne, tanti anni fa, dove le profondità dello spazio o gli abissi del mare erano quanto mai rassicuranti. Sono una bella coppia, Diabolik e Eva, e continuano a stupire un mondo sabotato da se stesso perché noioso e perché addormentato in un incantesimo proprio brutto, che Diabolik ruba e trasforma per Eva in romanzo d’appendice. Tutto è iniziato in tempi in cui la pecetta “vietato ai minori” era assegnata con assoluta generosità. C’era il Diabolik delle Giussani e subito dopo vi furono Kriminal e Satanik del grande Magnus, nel connubio potentissimo di sessualità e crimine che all’unisono fa quel peccato di lussuria a cui decenni fa tutti aspiravano e che il fumetto del ladro dagli occhi di ghiaccio presentificava. Il sesso stava dietro le quinte ma si intuiva che Eva e Diabolik lo facevano, e tanto, immersi in un mondo comicamente (oggi) futurista e socialmente prevedibile: il macchinone e tanti artifizi per rendere la vita degli amanti più dolce, più comoda nell’effrazione.

Due emarginati arrapati, Diabolik e Eva, perdutamente innamorati l’uno dell’altra tanto da sfidare l’identità: le maschere che garantivano la riuscita delle loro imprese erano del resto uno svelamento dell’artificiosità del mondo che mettevano sottosopra. Amor omnia vincit. All’inizio Diabolik era assai più fitto di trama e di risvolti psicologici. I balloon sovradimensionati erano zeppi di parole e i disegni piuttosto incerti schiacciati dal trionfo della parola: una sorta di romanzo illustrato che si affiancava agli allora dominanti fotoromanzi, surrogato di un cinema d’oltremanica o d’oltralpe meno controllato dalle parrocchie che settimanalmente mettevano all’indice riviste peccaminose. Quello che fu il processo del costume nel giro di una ventina d’anni relativamente alla stampa d’evasione lo conosciamo. Dalla censura spietata della gonna troppo corta al porno pecoreccio replicato all’infinito. Una grande boccata d’aria per un popolo represso e desideroso di evolversi anche nell’espressione di una sessualità che non ne poteva più di nascondersi.

Diabolik è però sempre rimasto fedele a se stesso, al proprio amore e alla percezione dell’amore che avevano le sorelle Giussani: rigorosamente di coppia, esasperatamente etero, nei decenni fedele. Il meccanismo narrativo segue leggi quasi scientifiche e le ripete da cinquant’anni. L’ostacolo amplifica e verifica la tenuta della coppia, quasi fosse un pegno da pagare perché il ludibrio (fuori scena: “osceno”) trionfi e sempre altrove rispetto alla ribalta: oltre la fine di se stesso e ai margini dell’immaginario, in quel posto strano e denso di sensi di colpa in cui noi tutti stiamo: la realtà di tutti i giorni, che Diabolik e Eva come noi vivono ma tutta cosparsa di peperoncino, all’insegna di una vita che si mette in gioco e lo fa per il più nobile degli ideali di un’Italia piccola piccola e borghese più che mai, l’Italia che scopa e ama la bella vita, consapevole che quella bella vita non è di tutti, giusto per Diabolik e Eva, piccoli supereroi in fregola perenne e autocompiaciuti del loro vivere nel peccato perenne, consumato dentro bunker disseminati ovunque, nell’oscuro di caverne rese quanto mai accoglienti da futuribili arredamenti e sempre con una bottiglia di spumante a disposizione, nel luccichio di inusitate collane di diamanti prova e pegno d’amore che Diabolik mette attorno al collo perfetto della sua adorata prima che cali il sipario sulla scena e i sensi vengano liberati. Fuori scena, ancora fuori scena: da cinquant’anni, per la gioia di tutti e il perenne scorno dell’ispettore Ginko, eterno terzo incomodo in fondo geloso di un così grande amore, un amore capace di andare oltre la legge degli uomini e profondamente… birichino. Spietato e tenero, a luci rosse e implacabilmente refrattario a qualsiasi ordine che non sia quello del proprio circolare, prevedibile godimento.

da Il Fatto Quotidiano del 27 gennaio 2012

Articolo Precedente

Alemanno e il valore della laurea in Beni Culturali

next
Articolo Successivo

Ebreo, romanzo delle identità

next