Due giorni fa, il rettore di Bologna Ivano Dionigi ha annunciato al termine del Senato Accademico che il sistema universitario è al collasso. “I tagli al Fondo di Finanziamento Ordinario nel 2012 portano all’insostenibilità del sistema, non riusciremo a coprire le spese per il personale”, ha dichiarato Dionigi. Per il 2012 il taglio è “del 5,5%, ovvero da 6,9 miliardi di euro l’Ffo passerà a 6,5 miliardi. Mancheranno quindi oltre 300 milioni di euro per pagare gli stipendi. Che cosa devo fare? Chiamare i colleghi e cominciare a piangere?” Si, forse è tempo che il rettore Dionigi e i suoi colleghi comincino a piangere. Piangano da soli, però, perché noi abbiamo finito la tenerezza.

Lo diciamo tutti da almeno tre anni: l’università è al collasso e si tratta di un collasso pianificato, preceduto da una campagna stampa diffamatoria, inaugurato dai tagli della 133/08 di Tremonti, continuato con la Legge 240, sigillato dal Milleproroghe e celebrato qualche giorno fa dall’approvazione del decreto 395 sul commissariamento degli atenei.

A febbraio, la decisione della commissione bilancio del Senato di respingere gli emendamenti del decreto Milleproroghe che avrebbero permesso di prorogare gli “sconti” sul calcolo della spesa in stipendi degli atenei, ha portato 35 atenei su 66 sull’orlo della bancarotta. 35 atenei su 66 hanno superato la soglia del 90% nel rapporto tra le spese per gli stipendi del personale e fondi annuali di finanziamento all’università, non tanto a causa di un improvviso malaffare, ma a causa di una modifica in corso d’opera dei criteri di finanziamento. I rettori non si aspettavano il Milleproroghe. Come ha dichiarato in quei giorni il rettore Filippo Bencardino del Sannio:Abbiamo collaborato per portare avanti la riforma, anche cercando di contenere le pressioni che venivano dal basso, dagli studenti, dai colleghi ricercatori. Ci siamo riusciti, adesso il governo si deve impegnare nell’aiutarci”.

Nei mesi successivi è diventato gradualmente evidente che le risorse non sarebbero state reintegrate. Preoccupata, il 20 luglio 2011, la Conferenza dei Rettori ha chiesto aiuto al presidente della Repubblica, esternandogli il pericolo di fuga dei cervelli, il dramma della riduzione del diritto allo studio, l’urgenza di rifinanziamento per il sistema universitario. Ciò che trascurava di dire la Crui, è che la principale complice di tale politica demolitrice era stata proprio lei stessa. Nessuno di noi ha dimenticato le dichiarazioni di Decleva del 25 novembre 2010, quando diceva a La Stampa: “Mi auguro che la riforma Gelmini arrivi presto in porto”. Nessuno ha dimenticato l’ostinazione e la veemenza con cui la Crui ha ostacolato una protesta legittima contro una legge sciagurata.

Veniamo al 6 luglio. Pochi giorni prima di recarsi da Napolitano, la Crui ha consegnato al ministro Gelmini un dossier nel quale chiedeva di sopperire al dissesto finanziario esistente con tre misure “inderogabili”. Per “mantenere i livelli di efficienza della didattica universitaria accettabili“, la Crui auspicava: l’eliminazione della soglia massima del 20% di contribuzione studentesca all’Ffo; di poter avere mano libera per utilizzare i ricercatori assunti a tempo indeterminato per assegnargli didattica curriculare senza retribuzione, e di eliminare il limite di 40.000 euro di reddito annuo ai lavoratori autonomi perchè possano essere destinatari di un contratto di insegnamento gratuito. La logica è chiara: un pò come nell’autunno 2010 Dionigi ha tentato di rispondere all’indisponibilità dei ricercatori sostituendoli con docenti a contratto per aggirare i problemi che la protesta poneva, così adesso la Crui propone di compensare la riduzione del finanziamento statale con maggiori tasse per gli studenti e didattica gratuita, esternalizzando sempre, in altre parole, i problemi esistenti su altri, in un meccanismo di delega della responsabilità che non solo non risolve nulla, ma continua a crear problemi. Ecco che l’annuncio che il prossimo anno verranno a mancare i soldi per gli stipendi non ci stupisce: è quanto vi stiamo dicendo tutti da tre anni.

Quando i rettori piangono, piangono dunque sui propri errori. Come hanno scritto ieri gli studenti del collettivo Scuole superiori di Pontedera ai presidi della scuola, “Ci dispiace ma non accettiamo le vostre lezioni su come protestare, se voi aveste saputo farlo a quest’ora non saremmo qui”. Non bastano gli occhi lucidi, o i mea culpa: il problema è il doppio gioco che da tempo porta ad accusare la stessa legge che si cavalca, in un meccanismo duplice che pubblicamente critica una politica impopolare, mentre dentro gli atenei difende gli stessi privilegi che quella politica offre, come si è visto nella stesura degli statuti da Catania a Torino, passando per Bologna.

Ci scuserete dunque se non abbiamo più tenerezza. Abbiamo solo una domanda. Il 22 settembre il Consiglio dei Ministri ha dato il via libera definitivo al decreto legislativo sui parametri di sostenibilità finanziaria degli atenei e il commissariamento. In caso di dissesto economico, il decreto 395 disegna una organizzazione interna accentrata nella figura del rettore e del direttore generale, ove l’abrogazione degli articoli 86 e 87 del Dpr 382/80 trasforma il bilancio unico nello strumento per un commissariamento permanente che dal Ministero si diparte all’amministrazione centrale di ogni ateneo, in una sorta di catena di comando che priva i dipartimenti di qualunque autonomia di spesa e la conoscenza di qualunque autonomia. Mentre l’Europa commissaria l’Italia e utilizza il dissesto economico per chiedere licenziamenti, liberalizzazioni, concorrenza e privatizzazioni, così la scelta politica del Governo di produrre un dissesto nell’Università pubblica si traduce nell’istituzionalizzazione di un sistema di commissariamento strutturale, che trasforma la libertà di pensiero e la didattica in un sistema di debito, sanzioni e ricatti. Il 395 avrà sulle università un impatto disastroso. Andiamo a comprare i kleenex?

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