David Kato era un militante omosessuale ugandese. Lavorava per l’organizzazione Sexual Minorities Uganda. Insegnante, diplomato in un istituto del Sudafrica post-apartheid, Kato aveva lasciato la professione per dedicarsi unicamente alla difesa dei diritti delle persone gay e lesbiche ugandesi, minacciati da una proposta di legge (depositata in Parlamento nel 2009) che mirava a introdurre la pena di morte per il reato di rapporti omosessuali – una legge delirante, anzi, abominevole di per sé, che tra le altre cose disporrebbe il rimpatrio in Uganda dei cittadini ugandesi che avessero commesso atti omosessuali in altri Stati.

Nel 2010, la rivista locale Rolling Stone indicava Kato e altri 100 attivisti come omosessuali, riportando anche i loro indirizzi. “Impiccateli!”, diceva il titolo. Kato intentò allora causa alla rivista per violazione della privacy, e vinse. Ma non gli servì a nulla: il 26 gennaio 2011, Kato veniva brutalmente assassinato a casa sua.

L’episodio ha avuto vastissima eco. Sul governo ugandese sono piovute durissime critiche ed appelli da tutto il mondo, in particolare da Human Rights Watch e Amnesty International. Ma a turbare oggi non sono solo le blande risposte della polizia, che finora non ha svolto alcuna indagine accurata sull’omicidio, dando credito ad ipotesi inverosimili, bensì una lettera dell’ambasciatore ugandese al presidente del Parlamento europeo, resa nota lo scorso 18 aprile. Nella lettera, l’ambasciatore dichiara che quanto diffuso all’estero sarebbe falso: Kato è stato assassinato da un tizio cui non voleva pagare favori sessuali.

Peccato che delle circostanze specifiche dell’assassinio si sa poco proprio perché sono in atto costanti depistaggi da parte della polizia e del governo ugandesi. Si aggiunga, inoltre, che dietro alla campagna omofobica realizzata da Rolling Stone – insieme alle decine di dichiarazioni, anch’esse omofobiche, di ministri, segretari e sottosottosegretari – si nasconde una chiesa evangelica statunitense, che in una conferenza del 2009 aveva ribadito che “le associazioni gay vengono dall’inferno e costituiscono una minaccia all famiglia e alla società”.

Nulla di nuovo sotto il sole. Da sempre gli omosessuali sono oggetto di violenze e discriminazioni d’ogni tipo. E la risposta tipica l’abbiamo già sentita: se la sono cercata.

E’ la logica perfettamente cristiana della redenzione, che vuole ricondurre tutto ciò che accade non alla violenza di altri contro un individuo o un gruppo, ma alle scelte di quell’individuo e di quel gruppo. La vittima diventa carnefice, responsabile della propria rovina. Come Matthew Shepard, assassinato all’età di 21 anni da due coetanei in Wyoming nel 1998. E’ stata colpa sua – dicevano – perché ci aveva provato con uno dei due. Come il sindaco di Mosca, che in occasione del Gay Pride del 2006 disse ripetutatmente che esso non si sarebbe potuto tenere perchè altrimenti la polizia avrebbe dovuto proteggere i manifestanti dagli attacchi violenti della popolazione.

Tutta gente, questa, che si dichiara religiosa praticante. Bisognerebbe riflettere sul ruolo (primario e, in negativo, indispensabile) del discorso religioso nel convogliare messaggi omofobici e violenti. Succede anche da noi, comunque. Proprio ieri l’onorevole Paola Concia è stata oggetto dell’ennesimo attacco verbale omofobico per strada. Anche lei se l’è cercata – a qualcuno sarà venuto in mente – perché stringeva la mano della sua compagna.

Queste accuse fanno sorridere, ma c’è ben poco di cui sorridere. David Kato avrebbe compiuto 47 anni entro tre settimane e la sua storia dimostra incontestabilmente che di omosessualità si muore ancora. E se non ti uccidono fuori, ricoprono la tua anima d’insulti.

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