Il programma degli eventi è così fitto da rendere impossibile una copertura capillare. Questo è il bello del Festival che scombina le primavere del capoluogo umbro da sei anni.
Di punti di forza, il Festival, ne ha tanti e sono visibili anche a chi, come me, partecipa quest’anno per la prima volta. I luoghi che ospitano gli eventi sono tutti molto vicini tra loro e raggiungibili a piedi in pochi minuti. Ci sono tanti giovani, molti più di quelli che si potrebbero immaginare, ci sono le code per entrare agli eventi più attesi: un messaggio chiaro a chi dice che non c’è voglia di partecipare e che non c’è spazio per un’opinione pubblica nuova, fresca e consapevole.
Un altro elemento da sottolineare in positivo è l’assenza di distanza tra i relatori (come ogni anno qui a Perugia, ci dicono) e gli spettatori. Gli speaker si intrattengono con il pubblico, composto da giornalisti emergenti, studenti e persone di tutte le età e le estrazioni sociali, si fanno intervistare e chiacchierano prima e dopo gli eventi. Nei prossimi giorni tenete d’occhio il web: troverete molto materiale interessante.
La giornata è stata influenzata dalla notizia del sì della Camera alla prescrizione breve. I lavori parlamentari hanno certamente condizionato il panel più atteso della giornata, quello sul giornalismo d’inchiesta. L’attualità ha infatti impedito una reale discussione sull’argomento ed è un peccato, visto che l’evento è stato moderato da Giuliano Giubilei e vedeva un parterre di partecipanti assai eterogeneo e prestigioso, a partire da Luca Palamara, presidente ANM, letteralmente travolto dagli applausi, passando poi per il nostro direttore Peter Gomez, Alessandro Campi, Gianluigi Paragone e Claudia Fusani.
I lavori del pomeriggio erano stati introdotti da due eventi molto diversi tra loro ma in cui, alla fine, si è discusso degli stessi problemi: sia nella discussione sui free press che in quella sul rapporto tra comunicazione giornalistica, comunicazione aziendale, giornalismo e pubbliche relazioni ci si è posti una questione spesso sottovalutata, pur ipocritamente, da editori e giornalisti: qual è la pressione (per usare un eufemismo) che subiscono le redazioni da parte delle aziende che acquistano inserzioni pubblicitarie e che, dunque, decidono del successo o dell’insuccesso finanziario della stragrande maggioranza dei media tradizionali?
La quantità di aneddotica raccolta è tristemente spaventosa. Concita De Gregorio ha raccontato del ritiro degli investimenti in pubblicità da parte di Ferrovie dello Stato dopo un articolo sulla strage di Viareggio. Stessa sorte è capitata al Gruppo Sole 24 ore per una cotoletta, quella del ristorante Gold di Dolce e Gabbana, mal recensita dal quotidiano economico e anche al gruppo L’Espresso per aver raccontato delle indagini per evasione fiscale che hanno colpito i due stilisti italiani.
La proposta più interessante sul tema giunge, a mio avviso, dal responsabile relazioni esterne di Enel, Gianluca Comin: una legge per impedire alle testate giornalistiche di assommare finanziamenti pubblici e finanziamenti privati.
La sovrapposizione degli impegni e una Sala dei Notari stracolma ci ha impedito di seguire l’evento su donne e politica, ma siamo riusciti a intercettare Susanna Camusso, segretaria generale della CGIL, a cui abbiamo chiesto se la sinistra potrà mai presentare 4 ministre donne e giovani così come ha fatto l’attuale governo Berlusconi: la Camusso ha risposto in modo politicamente corretto: rilanciamo la domanda ai lettori del Fatto, magari chiedendo loro quali nomi spenderebbero.
La giornata si è chiusa con il monologo di Luca Telese al Teatro Pavone sul “Come non si diventa giornalisti”. La sua storia personale, passata per cicli di praticantato ripetuti più volte, punizioni dai capi perché ne sapeva più di loro, frustrazioni dei colleghi di altre testate perché non possono scrivere tutto quello che pensano, editori che dettano la linea ai giornalisti su alcuni argomenti (Messaggero e Caltagirone, La Stampa e Fiat, Repubblica e il PD), per concludere con l’Ordine del giornalismo che, a detta di Telese, fa di tutto per impedire a un giornalista di crescere: tutto è funzionale al racconto di un’Italia gerontocratica anche e soprattutto nel mondo dell’informazione.
Durante la giornata ho discusso a lungo con una spettatrice che si accingeva ad assistere al documentario “Colpa nostra. Il terremoto dell’Aquila”, lamentando una programmazione oraria infelice (19.30, poi divenute 20 a causa del dibattito sulla prescrizione) e l’assenza di sensibilizzazione sul tema da parte degli stessi relatori di caratura nazionale. La signora mi ha anche detto che non avrei mai avuto il coraggio di portare i suoi argomenti sul Fatto e invece, eccoli qua, a disposizione del dibattito pubblico.
La frase della giornata potrebbe essere quella con cui proprio Telese ha chiuso il suo monologo. Suo nonno gli diceva sempre che paura e coraggio sono contagiosi. In una giornata in cui saremmo andati di corsa da Luca Palamara (poi fuggito da Perugia per andare a Porta a Porta) a chiedergli “da oggi ha paura di ciò che può succedere in Italia?”, non era facile trovare un messaggio di speranza così tanto semplice ed efficace.
(credits: interviste, montaggio e riprese a cura di Dino Amenduni, Giovanni Abbaticchio, Valeria Belviso e Alberto De Giglio)

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