“O si, o si”, questo sarà il quesito referendario che le lavoratrici e i lavoratori della Fiat si troveranno sulla scheda, sarà una innovazione interessante che finalmente ci metterà alla pari con le più avanzate democrazie liberali: dalla Cina alla Corea del nord, passando per la Birmania. Tanto per gradire e per non scaldare troppo gli animi il signor Marchionne ha pensato bene di annunciare: “O vince il si o salta Mirafiori”, non osiamo neppure pensare cosa sarebbe mai accaduto se l’ultimo dei sindacalisti della Fiom avesse mai osato dichiarare: “O vince il no, o sarà il caos…” . In quest’ultimo caso avremmo udito quintali di indignazione trasversale trasmessa a reti unificate Non sarebbero mancati gli editoriali dedicati alla irresponsabilità delle tute blu, qualcuno si sarebbe spinto sino ad evocare i fantasmi del terrorismo, altri avrebbero brandito un fantomatico rapporto dei servizi sulle infiltrazioni nelle fabbriche italiane e alla fiat. Gasparri avrebbe richiesto il daspo o il fermo anticipato per gli operai che avessero avuto ancora intenzione di votare no.

Invece quasi nulla, Marchionne può tranquillamente inveire, minacciare, ricattare, annunciare delocalizzazioni, senza che nulla accada, senza che alcuna istituzione lo richiami quanto meno ad un atteggiamento più pacato e responsabile, senza che alcuno gli ricordi che esiste anche un etica dell’imprenditore e che la forza lavoro non può essere ridotta ad una merce.

Quel referendum è ormai una tragica farsa, un voto truccato, che dovrebbe svolgersi in un clima palesemente inquinato e condizionato dalla paura e dalla angoscia. Proprio coloro che, anche in assoluta buonafede, hanno condiviso quella intesa dovrebbero ora alzare la voce, e almeno per una volta usare con Marchionne gli stessi toni ruvidi e talvolta sprezzanti che hanno riservato alla Fiom e più in generale a chi si è permesso di esprimere dubbi e perplessità, e tra questi ricordiamolo giuristi e studiosi della qualità di Stefano Rodotà e Luciano Gallino.

Quello che più sconcerta è la resa della politica o meglio di un’ampia maggioranza trasversale, la rinuncia ad esercitare un ruolo, la presa d’atto che le cose del mondo vanno ormai così e che chi detiene il capitale ha il diritto di fare quello che gli pare. Sembra di essere tornati al tempo nel quale si usava dire: “Ciò che è bene per il padrone è bene anche per i suoi dipendenti…”, con tanti saluti ad un secolo e più di lotte politiche, sindacali, civili.

A Marchionne, verso il quale non nutriamo nessuna personale avversione, va riconosciuto il “merito” di aver liquidato ogni forma di paternalismo, di aver cancellato le ipocrisie e di aver rivendicato in modo pubblico non solo un progetto di ristrutturazione industriale, ma anche un posizione ideologica che si fonda sulla centralità del capitalismo transnazionale e sulla irrilevanza degli stati, dei partiti, dei sindacati.

Non a caso attorno a lui si è formato un coro di chi finge di credere che l’Italia sia bloccata dalla democrazia diretta, dallo statuto dei lavoratori, e in ultima istanza dalla Costituzione che continua ad affermare la centralità del lavoro dei lavoratori e delle lavoratrici.

“Un residuo dei soviet”, affermò Berlusconi, più o meno la stessa cosa strepitano i coristi di oggi.
Per questo sarebbe sbagliato non cogliere tutta la portata nazionale e democratica della vicenda Mirafiori, quando si arriva a minacciare gli elettori, quando si ricorre al ricatto “O votate si, o vi butto fuori”, non si può fingere di non vedere o di non sentire, non si può restare neutrali, e persino chi non ha simpatia alcuna per le posizioni della Fiom ha il dovere morale di contrastare una deriva che rischia di alterare la nostra Costituzione materiale, di ridurre i diritti alla libera associazione e alla libera manifestazione del proprio pensiero e delle proprie opinioni.

Esagerazioni? Quale nesso potrà mai esistere tra il referendum a Mirafiori e l’articolo 21 della Costituzione, perché mai parlare di ricatto o di aggressione ai diritti fondamentali? Per tentare i darvi una opinione non di parte e fondata su argomentazioni scientifiche e di merito lo abbiamo chiesto all’avvocato Domenico D’Amati, il legale che ha brillantemente difeso Santoro, Biagi, la Guzzanti, Beha, Mazzetti, la Ferrario, per fare solo qualche nome, uno dei più accreditati i esperti del diritto del lavoro, il coordinatore del comitato scientifico dell’associazione articolo 21:

Secondo Eugenio Scalfari, l’aut aut posto da Marchionne ai lavoratori ed ai sindacati non è un ricatto, ma un’alternativa, perché non c’è dolo e quindi non è configurabile un reato. Se questa dovesse essere la linea difensiva del manager in un ipotetico processo penale per i fatti di Pomigliano e Mirafiore, penso che lo condurrebbe dritto alle Vallette. Ma lasciamo che degli eventuali risvolti penali della vicenda si occupi, se lo riterrà, la Procura della Repubblica e cerchiamo di stabilire se la condotta di Marchionne sia compatibile con i principi di un ordinamento democratico occidentale, il cui fondamento è la libera autodeterminazione dei cittadini nei loro rapporti contrattuali e associativi.

Questo principio è tutelato, nel mondo del lavoro, non solo dallo statuto dei lavoratori, ma anche dal Codice Civile (quello del 1942) e dalla normativa dell’Unione europea che proibisce ogni sorta di coazione e discriminazione, per non parlare dei principi affermati dall’Onu, secondo cui “labour is not a commodity”, il lavoro cioè non può essere mercificato.

Non v’è dubbio che, se il giudice del lavoro potesse procedere d’ufficio, come il procuratore della Repubblica, il marchingegno torinese verrebbe polverizzato in poche udienze. Esso infatti è preordinato a privare il lavoratore della sua libertà contrattuale mediante il brutale meccanismo del licenziamento con successiva riassunzione, sì che per mantenere il lavoro egli firmerà tutto ciò che gli verrà richiesto, compresa la rinuncia alla libertà sindacale. Questa sorta di “alternativa” è lo strumento prediletto dagli imprenditori che puntano, per realizzare profitti, non all’innovazione ma al risparmio sul costo del lavoro. Ricordiamo che il famigerato “collegato lavoro”, nella parte in cui consentiva di inserire la clausola arbitrale nelle lettere di assunzione, è stato rinviato alle Camere dal Presidente della Repubblica per manifesto contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza. Per non parlate del diktat imposto da Marchionne, con questo sistema, alle organizzazioni sindacali.

La via della resa può apparire, inizialmente, la più semplice e rassicurante, ma si tratta in realtà di una china molto pericolosa. La storia è piena di esempi. Chamberlain fu accolto trionfalmente a Londra dopo avere salvato la pace con la Germania firmando il trattato di Monaco. Ricordarlo non è una esagerazione, perché oggi è in gioco un prezioso patrimonio della nostra democrazia. Per questo, prima ancora di pensare ad iniziative giudiziarie, certamente possibili ma destinate ad essere contrastate dalla minaccia di delocalizzazione, le forze politiche che a quel patrimonio si richiamano dovrebbero impegnarsi con fermezza e soprattutto con chiarezza per opporsi al processo involutivo in atto (Domenico D’Amati).

In questi giorni queste posizioni, salvo poche lodevoli eccezioni, non hanno avuto spazio nel pubblico dibattito e negli spazi informativi, da oggi sarà il caso di impegnarci ad usare tutti i nostri strumenti, a cominciare dai nostri siti e dai nostri blog, per consentire che tutte le posizioni possano esprimersi e che sia finalmente tolto il bavaglio, soprattutto in tv, a chi non la pensa come Marchionne e non intende rassegnarsi al pensiero unico dominante.

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