La domenica mattina, mi capita di andare a giocare a tennis sui campi di LungoTevere Dante, che ha scovato il mio amico, collega e ‘sparring partner’ Fabio Tana, uno che a tennis va a giocare solo allo sprofondo. Un nome così importante, LungoTevere Dante, fa pensare a un posto elegante, centrale, esclusivo.

Invece, siamo sulla riva sinistra del fiume, quasi ai margini della città: più canneti che palazzi, da queste parti. Io ci arrivo svoltando a destra passato il ponte di viale Marconi: si attraversa un mercato da immigrati allestito su uno spiazzo di fortuna e poi un’area di edifici industriali semi-abbandonati.

Sul muro di un capannone, qualcuno ha scritto a grossi caratteri diseguali e un po’ incerti: “Di lavoro si muore perché di precarietà si vive”. Fino a domenica 20 giugno, non avevo mai notato il graffito: forse non c’era, forse non ci avevo semplicemente badato.

L’ho letto e m’è parsa un’analisi cruda e netta dei giorni nostri, di questa Italia (e non solo), dove vivere alla giornata è normale e le ‘morti bianche’, come tanti altri bubboni, gli scandali, l’illegalità, l’approssimazione, l’incompetenza, sono fatti –neppure mali- accettabili e accettati. La voglia di cambiare?, la speranza di farcela? Quelle abitano altrove, da Obama, o dalla De Filippi. O dentro noi stessi.

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