La foto che accompagna questo testo mostra una scuola appena costruita nel villaggio di Za’atari, in Giordania a ridosso di un campo-profughi dove dal 2012 sono accampati quasi centomila siriani fuggiti dalla guerra. In apparenza la costruzione replica edifici di architettura tradizionale, mediorientali o nordafricani. In realtà è un piccolo straordinario esempio di innovazione, sufficiente a dimostrare quanto sarebbe conveniente sottrarre la questione-profughi al monopolio delle burocrazie e mettere in gioco i serbatoi di idee e di professionalità nascosti dentro un termine sfuocato, ‘umanitarismo’.

La scuola è stata progettata e tirata su da ‘Emergency architecture § human rights’, un gruppo internazionale di giovani architetti con sede a Copenhagen, applicando la super-adobe, una tecnica di costruzione che utilizza materiali poveri e non richiede un particolare know-how. La super-adobe è essenzialmente un’idea. Nella versione sperimentata da ‘Emergency architecture’ consiste nel sovrapporre lunghi sacchetti ripieni di sabbia o di terra fine, per poi spalmare sulle pareti montate in questo modo una malta di argilla e paglia. Il risultato è un manufatto che costa la metà per metro quadro di un tetro rustico in cemento, ha un valore estetico, non richiede per l’edificazione manodopera specializzata, non è gelido d’inverno né si arroventa d’estate come i container in metallo del vicino campo-profughi di Za’atari. Sul sito, gli architetti del gruppo spiegano di costruire “per comunità vulnerabili nel mondo che affrontano ineguaglianza, crisi umanitarie e violazioni dei diritti umani”, ma rifiutano la semplificazione che li vorrebbe ‘architetti umanitari’: un modo per dire che l’architetto delle emergenze non è un architetto qualsiasi, mosso da buoni sentimenti, ma una figura professionale, certo motivata da passione civile ma dotata di un suo sapere specifico e di una capacità di innovazione.

Se cominciassimo a guardare in questa prospettiva anche alle ong più professionali scopriremmo altrettanta qualità. Cuamm, Oxfam, Save the children, Intersos, Cestim, Msf, l’Aiutiamoli là di cui ha raccontato Gianni Barbacetto su questo sito: per inventare soluzioni economiche, praticabili, efficaci, queste organizzazioni sono di fatto obbligate da infinite resistenze ad aguzzare l’ingegno (a “navigare controcorrente”, secondo la bella metafora di Regina Catrambone, fondatrice del Moas: ”Abbiamo navigato controcorrente, in tutti i sensi, sempre per andare incontro a chi rischiava la vita in mezzo al mare”), un esercizio invece risparmiato alle burocrazie nazionale e internazionale.

Ora si vorrebbe che le ong vadano in Libia per estrarre dai lager i migranti lì imprigionati. Ma se quelle organizzazioni possono svolgere un compito così delicato e impegnativo, perché non coinvolgerle anche in Italia nel trovare soluzioni meno macchinose di quelle finora prodotte da elucubrazioni ministeriali? Perché non profittare della loro esperienza, delle loro idee? Probabilmente scopriremmo che esiste un modo più economico, più razionale e più dignitoso per affrontare il problema dell’immigrazione; che non occorre essere ‘buoni’, basterebbe essere intelligenti. Ma lo Stato dovrebbe rinunciare alle sue ansie di controllo, vincere le proprie inerzie, ignorare gelosie di apparati, e la politica farsi da parte, insieme alle sue clientele. Impresa immane. 

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