MODENA – La limpidezza paga, la nitidezza aiuta, la chiarezza è sempre un buon viatico, la semplicità è il motore. Si chiama (non a caso) Trasparenze il festival della compagnia Teatro dei Venti che, da cinque anni, fa risuonare la Modena fuori dal centro salottiero, lontano dagli stucchi del Teatro Storchi, distante dall’off ricercato Teatro delle Passioni, staccato anni luce da Pavarotti e Ferrari. Qui si fa spettacolo ovunque: nel Teatro dei Segni come in magazzini, appartamenti, cabine telefoniche e soprattutto nelle carceri.

L’anima di questo festival è cresciuta, ha preso coscienza: è un’importante tappa. Il Teatro dei Venti ha un lungo curriculum all’estero, solamente quest’estate ha in programma una densa tournée che li porterà dalla Romania alla Grecia, alla Croazia, mentre a fine anno saranno nuovamente in Senegal.  Ha saputo ritagliarsi, tra compagnie italiane e qualche perla internazionale uno spazio autonomo e una propria riconoscibilità.

Tre i lampi che ci hanno scosso e colpito: l’onestà dei liguri Kronoteatro, la genuinità dei messicani Vaca35, l’autenticità dei romani Collettivo Schlab. Pugni al cuore e non carezze. Le mura del carcere cambiano sempre un po’ la prospettiva e la percezione. Ogni parola ha un peso specifico più statuario e ferroso, ogni rimbombo di frase ha il segno definitivo della chiusura di un cancello di sbarre. E i Kronoteatro, ispirandosi al Tieste di Seneca, hanno trovato una formula tutt’altro che scontata per riuscire a far dialogare l’istituto carcerario e la pena conseguente con chi resta fuori, inserendosi in quel solco invisibile che lega indissolubilmente chi commette un reato e la propria famiglia, che sconta una condanna simile e contraria: il pregiudizio, la diffidenza.

Che le colpe dei padri non ricadano sui figli, può essere la summa del lavoro del gruppo di Albenga, che mette al centro un pupazzo-fantoccio di legno, un burattino pinocchiesco scomposto che viene prima rimesso in sesto con del nastro scocciante e infine lasciato con la pancia aperta, le fauci dello stomaco che duole di grovigli di domande, che pare una bocca munchiana che urla disperata il proprio dolore furente, il suo furore doloroso.

Stretti nel magazzino delle attrezzature tra impalcature e scene, esplode l’intimità ruggente dei Vaca35 (vuol dire “colletta di pochi pesos”) da Città del Messico e recentemente vincitori del festival Mess di Sarajevo. Lo unico que necesita una gran actriz, partendo da Le serve di Jean Genet: due donne, una sovrappeso e l’altra magra, intavolano un discorso, corporeo prima e sfida dialettica dopo, dove cibo, frustrazione, giochi di ruolo, sottomissione e prepotenza escono in maniera drammatica. Il gioco vira in tragedia, lo scherzo in offesa, la condivisione in astio fradicio d’insulti e oltraggi. L’amore scivola nel rancore, l’empatia in umiliazione e mortificazione dell’altra, l’abbraccio diventa pugno, la violenza è tangibile in questo ambiente claustrofobico, senza possibilità alcuna di evasione. In un triste disegno d’irrealizzabilità e negazione, le due Cenerentola passano senza soluzione di continuità dalla comprensione all’accanimento, dalla devozione all’azzannarsi in un clima circolare di dipendenza e desiderio di annientamento.

Tutta la brutalità politicamente scorretta di Schwab trova terreno fertile nel Duet degli Schlab che, Valentina Beotti un crinale di registri e Enrico Roccaforte, sponda spugnosa, toccano tutte le contraddizioni del nostro tempo patologico: la coppia, le credenze, le convinzioni, le credute e spacciate unicità dietro cui si celano conformismi, provincialismi, razzismi, minuzie, stupidità di ognuno di noi. Un botta e risposta agile e molto british (una scrittura spiazzante che avvince e felicemente disorienta), tutt’altro che innocente, che scardina quel velo di presunzione e quelle tonnellate d’individualismo che fanno dell’uomo contemporaneo occidentale una miscellanea di frasi fatte, di citazioni googlate, risate da spot, patchwork mixati all’impazzata dove conta più il parlare, il riempire di suoni il silenzio, rispetto al che cosa dirsi.

Ci controlliamo talmente tanto da essere diventati un prodotto commercializzabile, uno specchio acritico (ma con la parvenza di scegliere in maniera autonoma) del caleidoscopio (fintamente) colorato che si agita là fuori, oltre i catenacci delle nostre “case-alveari”. Intanto parliamo, con la bocca piena, di ambiente, migranti, km 0, biodegradabilità, sostenibilità. Siamo l’orchestra del Titanic che strimpella, mentre tutto intorno va a picco.

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