Esce oggi Spirit, il quattordicesimo album di studio dei Depeche Mode. Il battage pubblicitario cominciato diversi mesi fa, annunciava il ritorno (l’ennesimo) a sonorità di matrice anni 80 e non solo. Ciò avveniva con azioni pubblicitarie mirate, come le foto di Dave Gahan appoggiato al martello utilizzato in copertina per Construction Time Again (album del 1983) oppure dichiarazioni volte al recupero delle proprie appartenenze: “[…] Veniamo dalle case popolari dell’Essex – dice Dave – che è davvero un posto di merda, 30 minuti a est di Londra, dove hanno convogliato la gente quando Londra stava diventando troppo popolata alla fine degli anni sessanta […]”.

Il disco da diversi giorni, in verità, è disponibile su Bandcamp; i social network, neanche a dirlo, hanno così registrato l’umore dei fan, a dire il vero non particolarmente propenso ai complimenti. Spirit pare, infatti, essere pesantemente sotto le aspettative.

Ora, occorre fare un passo indietro, provando a distaccarsi dal battage pubblicitario, nonché dalle dichiarazioni forvianti dei Nostri, cercando di ragionare su cosa aspettarsi realmente da un album dei Depeche Mode nel 2017.

Forse un disco che li riporti finalmente agli antichi fasti? I fan della prima ora ritengono aureo il periodo intercorso tra il 1983 e il 1993; a fare la differenza, un sound in grado di definire non soltanto l’universo musicale dei Depeche, anche e soprattutto il Synth-Pop del tempo. Parliamo di canzoni che non lasciano scampo, inserite in album le cui dinamiche orientano le produzioni all’insegna della pura creatività. Ma fate attenzione, se chiederete ai fan chi tra i membri della band sia il responsabile di tale miracolo, ad esser nominati non saranno Dave Gahan, Martin Gore oppure Andy Fletcher, piuttosto un certo Alan Wilder, ritenuto padre putativo del sound dei Depeche e quarto membro presente negli anni sopra citati.

Nel periodo in questione, “i quattro” hanno pubblicato sei album (da Contruction Time Again a Songs of Faith and Devotion); sostenere che siano i lavori migliori è cosa nota, tuttavia, non è un azzardo affermare che proprio in quegli anni, Gahan e soci, abbiano definito il proprio percorso non tanto affermandosi all’insegna di grandi dischi, piuttosto sotto l’egida bellezza di canzoni memorabili.

Prima di essere preso a sassate dai fan, è doveroso includere l’eccezione alla regola, Music for the Masses e Songs of faith and devotion sono annoverabili alla voce «capolavori»: “inizio, centro e fine” li rendono dischi compatti e definiti in ogni parte. «Violator», forse quello della definitiva consacrazione commerciale, si eleva per la produzione (affidata a Flood) e per i singoli (a conferma di quanto sostenuto), così come Black Celebration e gli album precedenti (a suffragio di tale argomentazione, si aggiungano canzoni come Shake the Disease oppure Get the balance right, le quali non compaiono colpevolmente in nessun album, fatte salve le compilation).

Quanto affermato è forse una tesi corroborata dalle produzioni più recenti (e quindi senza Wilder)? Da Ultra ai giorni nostri, non è forse vero che la formazione inglese abbia prodotto soltanto un piccolo manipolo di canzoni che ricorderemo? Nessun album in questione, nella sua interezza, ha lasciato traccia di sé, o meglio, l’eccezione che conferma la regola si ripropone nuovamente ma è “contraria”! Delta Machine, uscito nel 2013, risulta non essere pervenuto, la sola Should be higher, infatti, non regge l’assenza colpevole di canzoni solamente abbozzate. Tornando ai grandi singoli scaturiti nella seconda parte di carriera, quale secondo voi l’ultimo grande pezzo pubblicato (ripeto, negli anni dopo Wilder)? Forse Wrong, uscita nel 2009? Oppure Precious, inserita addirittura in Playing the angel del 2005? Volendo esagerare, si potrebbe scivolare nel 1997 ripescando gli ottimi singoli inseriti in Ultra, in ogni caso parliamo di un numero esiguo di brani oltretutto pubblicati molto tempo fa.

Si conceda loro molto altro, naturalmente.

– Restano a tutt’oggi una grande band capace di esprimersi sul palco come poche altre, riciclando se stessa ma con cognizione di causa, senza scivolare nel patetico. Ma Gahan la smetta di far cantare interamente al pubblico le solite canzoni – e quindi praticamente tutto il concerto -, tra i presenti c’è anche chi vorrebbe sentirlo cantare e non soltanto guardarlo sgambettare;
– Restano in ogni caso una band di culto, privilegio che ad esempio gli U2, altra formazione anni 80, si sognano;
– Stile e sound, rimangono unici e assoluti; cambiano i produttori ma il marchio distintivo non viene in nessun modo scalfito, quando senti un loro brano, lo riconosci sin dalle prime note.

Volendo fare le pulci, potrebbero migliorare l’estetica del progetto licenziando immantinente Anton Corbijn: tra copertine di album imbarazzanti (anche l’ultima) e video a corredo dei live – davvero improponibili – ci si chiede quanto il noto fotografo/regista abbia compreso di rappresentare i Depeche Mode e non i Coldplay.

Il solito Dj qualunque dopo aver ascoltato Spirit due sole volte, sospetta fortemente che anche il quattordicesimo album di studio di Martin Gore e soci, andrà a infoltire la categoria «eccezioni alla regola»; quindi catalogato insieme a Delta Machine, alla voce “non pervenuto”.

9 canzoni 9… dei Depeche Mode

Lato A

In Your Room

Shake The Disease

Behind the Weel

Somebody

Lato B

Leave in Silence

Blasphemous Rumours

Fly on the Windscreen

Policy of Truth

Ice Machine 

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