E’ stata una campagna elettorale dura, accesa, con toni aggressivi. E’ stata una campagna elettorale vera, con una posta politica in palio che vale parecchio perché è chiaro a tutti che oltre alla riforma della costituzione c’è pure il destino di Matteo Renzi.

E’ stata una campagna elettorale dove i leader non si sono risparmiati, dove le televisioni e i giornali hanno raccontato ogni momento, ogni passaggio, così che luci e ombre della riforma fossero commentate e ricommentate, masticate una due, tre volte. Nelle campagne elettorali torna la passione e la passione spesso inonda il razionale. Ho sentito parlare di politica nei bar, nelle piazze, sui mezzi pubblici. Ho saputo di famiglie e di amici divisi sul voto. Certo, la politica appassiona gli appassionati, ma in qualche modo contagia anche chi si ferma al pelo dell’acqua e comunque avrà voglia di esercitare il suo diritto.

A me questa campagna elettorale è piaciuta, perché mi piace quando ci si riappropria della politica (lo dovremmo fare più spesso, anche oltre i periodi elettorali: la politica non è del palazzo). Da un mese abbondante ci siamo appassionati a una riforma che può piacere o meno ma che ha animato la discussione. Una riforma che i Sì definiscono epocale, i No inutile. Ci siamo divisi mettendo sul campo le nostre convinzioni, le nostre perplessità e le nostre critiche.

Ora, messo in chiaro tutto questo, il tema che vi giro è: perché questa discussione, questo dibattito, ci è stato impedito, vietato, negato rispetto a una questione che è stata decisamente superiore e di maggiore impatto sulle nostre vite: l’euro e l’Unione europea? Perché non ci è stato permesso di esprimere un Sì o un nostro No alla moneta unica e prima ancora rispetto a quel trattato di Maastricht che è intelaiatura (o gabbia, dipende dai punti di vista) dell’Ue? E perché il pareggio di bilancio inserito in Costituzione non ha avuto il tagliando referendario (la domanda è politicamente retorica, lasciate dunque perdere le riposte tecniche perché le conosco. Sto sollevando un tema politico)? Chi ha avuto paura del dibattito? Romano Prodi ha voluto far conoscere urbi et orbi il suo Sì tiepido alla riforma costituzionale; ma lui se n’è fregato – assieme ai Ciampi, ai Napolitano, agli Amato e compagnia cantante – di conoscere l’opinione degli italiani rispetto alla cessione disovranità a favore di Bruxelles. L’ingresso nell’unione prima e nell’Eurozona dopo è stata una decisione d’imperio, arrogante, degna di una classe politica cui oggi il popolo restituisce la pariglia, a muso duro. Ben gli sta, aggiungo.

Ovviamente io so che un siffatto referendum l’avrei perso perché in quella stagione la casta italiana era il male, era il pressapochismo assoluto; mentre l’Europa col suo rigore era la nuova Betlemme. “Finalmente arriveranno quelli che aggiusteranno i nostri ladroni“, pensava la maggioranza degli italiani. La stessa che oggi né morirebbe più per l’Europa né avverte i benefici della terra promessa. Sì, io quel referendum l’avrei perso; ma almeno avrei potuto discutere alla pari, o quasi. Sarei rimasto schiacciato ma gli altri avrebbero dovuto ascoltare le mie ragioni. Invece è stata solo una messa cantata, la cui eco cerca di allungarsi anche adesso che i fedeli cominciano a uscire dalla messa nera degli europeisti e degli euristi, gente la cui arroganza non è per nulla inferiore ai populisti che tanto disprezzano.

Allora la domanda è: perché non hanno voluto farci votare? Perché hanno imposto la loro tesi bugiarde? Perché la democrazia non ha potuto entrare nelle viscere di un’Europa priva di costituzione e di identità? Forse perché il gioco non doveva ammettere poste alternative. Le cose dovevano andare in un solo verso, quello che è sotto gli occhi di ciascuno di noi.

I popoli però si riprenderanno tutto.

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