Si chiama Teresa Mary Pooler e potrebbe lasciare il segno nella più recente fase dell’atavico duello con il riciclaggio.

La signora è il giudice federale della Contea di Miami-Dade, in Florida, che il 22 luglio ha assolto un venditore di “bitcoin” finito nei guai nel 2013 a seguito di una brillante indagine avviata dal Miami Beach Police Department e portata a termine in collaborazione con la Electronic Crime Task Force del Secret Service americano.

La storia comincia con l’attività investigativa svolta dal detective Ricardo Arias dopo aver scoperto un vivace traffico di moneta virtuale su “localbitcoins.com”, un sito web dove la gente procede a compravendita di bitcoin in contanti molto spesso agendo nel più assoluto anonimato.

Il venditore “Michelhack”, che assicurava una disponibilità assoluta in termini di orario (24 ore su 24) e ovunque purché in luoghi aperti al pubblico, finisce nella trappola del detective a cui vende la prima volta 0,4 bitcoin per 500 dollari “cash” e un mese dopo 1 bitcoin per mille “verdoni”. Arias giustifica il proprio interesse ad acquistare bitcoin spiegando di averne bisogno per poi pagare un certo quantitativo di numeri di carte di credito facenti capo a persone russe. Il tizio – all’anagrafe Michell Espinoza – si mostra pronto a soddisfare l’esigenza e si accorda per un successivo incontro. Qualche giorno dopo un terzo acquisto per altri 500 dollari.

Il quarto meeting è fatale. Il detective Arias si presenta con un rotolo di soldi in una stanza d’albergo in cui erano installate numerose videocamere indispensabili per immortalare l’illecito. Espinoza comincia a dire che quei 30mila bigliettoni sono falsi e cerca di allontanarsi con il denaro con la scusa di doverli verificare: a quel punto scattano le manette con l’accusa di aver posto in essere operazioni di riciclaggio.

E qui comincia la diatriba giudiziaria.

Nonostante due riferimenti significativi in materia, la giudice Pooler resta della sua opinione.

Non le importa se nel marzo 2013 il Financial crimes enforcement network, l’agenzia federale statunitense che si occupa di delitti finanziari nota sotto la sigla “FinCEN”, pubblica delle linee guida operative asserendo che le operazioni compiute con i bitcoin dovrebbero essere considerate nel novero degli scambi di denaro. Non riconosce attendibile nemmeno quel che, nell’agosto dello stesso anno, sostiene il suo collega texano Amos Mazzant secondo il quale queste monete virtuali sono “una valuta o comunque una forma di denaro” e pertanto assoggettabili alla normativa vigente.

La tesi di Teresa Mary Pooler poggia sulla definizione di mezzo di pagamento, così come riconosciuta in maniera letterale dall’ordinamento della Florida.

Tra questi strumenti rientrano travel-cheque, mandati di pagamento, vaglia postali, assegni, strumenti elettronici o altrimenti impiegabili per il pagamento di denaro o valore monetario o altro comunque negoziabile. Il termine non include lettere di credito né mezzi rimborsabili dall’emittente in merce o un servizio.

Una mancata specifica previsione di legge fa crollare le accuse.

D’altronde il bitcoin nasce nel 2009 e il quadro normativo è antecedente e non ne poteva prevedere la nascita e la successiva affermazione sul mercato.

Ma la Pooler aggiunge che “il bitcoin ha molte caratteristiche in comune con il denaro, ma presenta anche sostanziali e importanti differenze”. Secondo la giudice della Corte distrettuale di Miami, “anche se i bitcoin possono essere cambiati con altre valute, non sono comunemente compresi tra le monete oggetto di cambio. Sono accettati da alcuni soggetti, ma non da tutti gli operatori di commercio elettronico o dai service providers”. Teresa Pooler insiste poi sulla estrema volatilità del valore del bitcoin: questa instabilità renderebbe il meccanismo di questo strumento elettronico di pagamento non affidabile e costituirebbe un elemento divergente con la finalità classica del denaro che nasce per immagazzinare ricchezza.

La sentenza fa discutere, ma il timore vero è quello che passi inosservata e si cristallizzi un terribile precedente.

Dalle nostre parti qualcuno ha preso atto di quel che è accaduto in quell’aula giudiziaria d’Oltreoceano? Sono al corrente della vicenda quelli che legiferano, devono applicare e far rispettare le disposizioni, investigare e un domani giudicare in merito?

I flussi finanziari che vivificano le organizzazioni terroristiche si basano sull’impiego di “criptovalute” e forse è il caso – chiacchiere a parte – di mettersi al lavoro per fronteggiare un rischio che da troppi anni viene trascurato. Il cyberlaundering rischia di essere la linfa vitale del mostro acefalo che assedia la nostra serenità. Ne scrivevo già nel 1999 sulla rivista dell’allora Sisde, oggi Aisi. Purtroppo, vox clamans in deserto.

@Umberto_Rapetto

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