“Non si tratta di una questione che riguarda i neri, o gli ispanici. È una questione che riguarda noi tutti”. Così Barack Obama ha reagito da Varsavia, dove è arrivato per partecipare all’ultimo summit NATO da presidente USA, alla notizia dell’uccisione di Philando Castile, il 32enne nero ammazzato con quattro colpi di pistola mentre viaggiava sulla sua auto nei sobborghi di Minneapolis, Minnesota.

Il presidente ha parlato prima dello scatenarsi dei nuovi fatti di Dallas. Il suo resta però un appello a considerare la recente ondata di uccisioni di neri, da parte della polizia statunitense, come un problema grave, che rischia di esacerbare la tensione razziale nel Paese. Dall’inizio dell’anno, sono 566 i morti per mano della polizia. Erano stati 1146 nel 2015. Non tutti sono, ovviamente, afroamericani. Molti tra gli uccisi appartengono comunque alla comunità nera.

“Tutti noi, in quanto americani, dovremmo essere sconvolti per quello che succede”, ha detto Obama, che ha continuato: “Non si tratta di incidenti isolati. Sono piuttosto sintomatici di un insieme molto più vasto di diseguaglianze razziali che esistono nel nostro sistema di giustizia criminale”. Il presidente ha citato la lunga, tormentata storia delle relazioni razziali negli Stati Uniti; e alcune statistiche che mostrano l’ineguale trattamento tra le diverse etnie. Cercando di suonare il più possibile positivo, Obama ha detto: “Forse nell’arco di vita dei miei figli, tutte le ferite del passato saranno curate”.

Obama parlava appunto prima degli ultimi eventi di Dallas, che rischiano di precipitare l’America nella peggiore crisi razziale degli ultimi decenni. I dati sulla disparità nel Paese sono però davanti agli occhi di tutti. L’80 per cento dei fermati per controlli a New York City sono neri o ispanici. I neri rappresentano il 13 per cento della popolazione americana, e il 14 per cento dei consumatori di droghe, ma sono il 37 per cento delle persone arrestate per reati legati al consumo e alla vendita di droga. Una Commissione del Congresso americano, nel 2010, ha stabilito che, in media, i neri americani sono condannati a pene più lunghe del 10 per cento rispetto ai bianchi. I maschi afroamericani nati nel 2001 ( dati del Dipartimento alla Giustizia) hanno il 32 per cento di possibilità di finire in galera durante la loro vita (contro il 6 per cento dei bianchi). 

Non sono soltanto queste evidenti disparità di trattamento a preoccupare e a provocare l’esplosione di proteste di questi mesi. Ci sono ovviamente i morti, la lunga, quotidiana serie di persone uccise dalla polizia in modo del tutto gratuito. L’ultimo si chiamava Philando Castile, è stato ucciso semplicemente perché portava le mani al portafoglio, per prendere i documenti di identità che l’agente di polizia gli aveva chiesto. Il brutale assassinio è stato trasmesso live dalla fidanzata su Facebook, ed è stato questo a muovere Obama, a spingerlo a parlare. Due giorni prima di Castile era però stato un altro afroamericano, Alton Sterling, a essere abbattuto senza ragione (anche di questo fatto esiste un video, girato dal proprietario del negozio di Baton Rouge accanto al quale si è svolto il fatto). E sono tanti, in questi anni, i nomi degli uccisi senza motivo in operazioni di polizia – e senza che venissero quasi mai puniti i responsabili.

I loro nomi li conosciamo, grazie anche alla diffusione di smartphone e social media che ha aiutato a testimoniare. Michael Brown, Eric Garner, Tamir Rice, Freddie Gray, John Crawford, Tony Robinson, Walter Scott, Jerame Reid, Sandra Bland. Dopo i fatti di Ferguson, dove un 18enne afroamericano, Michael Brown, venne ucciso da un agente bianco, Darren Wilson, senza che il ragazzo costituisse una minaccia concreta per la vita dell’agente (per altro poi sollevato da qualsiasi addebito) un rapporto del Dipartimento di Giustizia concludeva che i diritti costituzionali dei neri vengono oggi regolarmente violati negli Stati Uniti.

Il Dipartimento di Giustizia chiedeva alle polizie locali corsi di sensibilizzazione e modi nuovi per interagire con la comunità afroamericana. Non è praticamente successo nulla. Non soltanto le uccisioni di afroamericani sono continuate. In molti casi, proprio la polizia (spesso con l’aiuto di procuratori compiacenti) ha fatto di tutto perché non emergessero le responsabilità dei propri agenti. La polizia di Chicago ha per esempio resistito 16 mesi prima di rendere pubblico il video che mostra l’uccisione di un ragazzo di 17 anni, Laquan McDonald, assassinato con 16 colpi di pistola da un agente.

Quello che però solleva la rabbia e l’indignazione della comunità afroamericana è l’assenza di misure contro gli agenti responsabili dei crimini. L’assenza di responsabili da portare davanti alla giustizia quando è un nero a essere ucciso è del resto un’antica abitudine della società americana. Sono centinaia i casi di neri ammazzati negli anni Cinquanta e Sessanta, durante la stagione dei diritti civili, per cui non sono mai stati trovati i colpevoli. Alcuni giorni fa l’Attorney General del Mississippi, Jim Hood, ha definitivamente archiviato il caso dei tre ragazzi assassinati dal Klu Klux Klan nella contea di Nashoba nel 1964 (i fatti del film Mississippi Burning). Anche qui, le responsabilità sono state solo parzialmente accertate. A restare è dunque soprattutto l’indignazione per le cose che non cambiano. Dopo i fatti di Ferguson, dopo lo scandalo internazionale, dopo la nascita di un nuovo movimento per i diritti dei neri, “Black Lives Matter”, gli omicidi di giovani neri, da parte della polizia americana, non sono diminuiti. Sono aumentati.

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