Quando aprì gli occhi era tutto buio e aveva il cuore che gli batteva come se dovesse schizzargli fuori dal petto. Per questo all’inizio non riuscì a capire dove si trovasse, così rimase a guardare il buio tra i battiti del cuore con la bocca semiaperta. Accorgendosi del cuscino sotto la testa capì di avere fatto un sogno e si rilassò, si alzò coperto di sudore e si sedette lentamente sul bordo del letto lasciando le gambe penzoloni. E, all’improvviso, in quel momento una freschezza si sparse tutt’intorno.

Ziya, personaggio kafkiano in salsa turca, decide di abbandonare la metropoli dove vive dopo la perdita, tragica, della sua famiglia, e di raggiungere un vecchio amico, Kenan, con cui, trent’anni prima, aveva svolto il servizio militare ai confini con la Siria. Kenan vive in un villaggio che all’apparenza è l’esatto contrario della grande città, pervasa da caos e frenesia e dove, Ziya, ritrova i valori, ma soprattutto i ritmi, della Turchia rurale fuori dal tempo. Anche qui, però, le cose non vanno come dovrebbero andare e il nuovo arrivato si perde nei meandri dei propri ricordi cercando di capire quali sono i motivi che spingono Kenan, dopo così tanto tempo, a sentirsi ancora in debito con lui.

La trama di Impronte, di Hasan Ali Toptaş (traduzione di Giulia Ansaldo, pubblicato in Italia da Del Vecchio Editore) è asciutta e semplice, quello che colpisce del romanzo è il suo linguaggio. Passando continuamente dal reale all’onirico, dal presente al passato, da tratteggi lirici a ruvide descrizioni della vita militare, lo scrittore turco crea una storia avvincente, gustosa da leggere proprio grazie alla sua composizione linguistica, che a tratti ricorda un realismo magico anatolico, e malinconico, com’è la parola intraducibile gumusservi, termine poetico utilizzato per descrivere il riflesso della luna sull’acqua. O come i sogni, che nel romanzo dettano leggi e confidano soluzioni per superare la violenza del passato. Ricordi a volte difficilmente digeribili, che si viva nella grande città, o nella campagna arcaica.

Con un tono distante prima parlò della disciplina, della responsabilità, dell’equipaggiamento, delle armi e dell’integrità e spiegò anche che gli orfani senza sostegno nell’esercito avevano diritto persino al coperchio della gavetta; poi tirando la voce dietro la tenda del rimprovero, parlò delle terre della cara patria e, insieme a un certo numero di giochi che si giocavano su quelle terre, parlò degli obiettivi interni ed esterni di coloro che giocavano a questi giochi; poi si compose e parlò della sacralità del compito patrio, della negligenza e della fedeltà all’esercito; inchinandosi leggermente indietro assumendo con la sua posa un’aria maestosa propria degli eroi, parlò delle pagine gloriose della Storia, delle grandi vittorie scritte a lettere d’oro su queste pagine e dei comandanti famosi che avevano guadagnato queste vittorie e tornato al punto di partenza, dopo aver sottolineato ancora una volta l’importanza della disciplina, aprì improvvisamente le braccia come se volesse abbracciare contemporaneamente tutta la compagnia e gridò: benvenuti nella Naja figli miei, voglio proprio vedervi all’opera, mi raccomando non fate vergognare i vostri avi sotto terra, né i vostri genitori, né me!

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