Alessandro MazoniNon sono mai stato particolarmente incline ai purismi linguistici sia perché credo, con Nencioni, che il ‘purismo’ sia faccenda strettamente e tristemente italiana, l’altra faccia di una cultura che ha potuto contare su una lingua ‘nazional-popolare’ più grazie alla Tv che al romanzo (manzoniano) – ché qualche pregio l’ha sin il diabolico marchingegno catodico – sia perché, seguace come sono dell’Algarotti, credo che le lingue siano organismi vivi, in continuo cambiamento, metamorfosi, fusione.

Le lingue, nel loro mutare, sono l’immaginazione di un futuro possibile. Una lingua ‘pura’ non esiste, o meglio, se esiste, è perché è una lingua morta… Né credo che esistano parole, o espressioni, orrende in sé. Tutto dipende, come sempre, non dalle parole, ma dal contesto. Dunque, purista non sono di certo: non sono disponibile a impressionarmi più di tanto, se una lingua viva include, assorbe, adatta, o adotta termini allotri, o neo-gergali. Ad esempio, quando, nel 2000, un manipolo di artisti e intellettuali, certamente animati dalle migliori intenzioni, si diede da fare con un ormai felicemente dimenticato “Manifesto della bella lingua”, contro l’invasione di certi anglismi nell’italiano, ne presi le distanze inorridito.

Cos’è una lingua – in sé – ‘bella’? Ecco una domanda a cui non è possibile rispondere, se non con sprezzo del ridicolo. Inoltre ero rimasto stupefatto da quanto era accaduto tutt’intorno: un fiorire di pasdaran del Bembo e del Puoti. Partigiani dell’Arcadia ovunque. Il sonno della ragione, si sa, genera mostri, ma anche quello della linguistica non scherza, evidentemente.

Stavolta, però, la faccenda è diversa, non a caso a intervenire, a seguito del successo dell’hashtag (come si dirà in italiano hashtag? etiche-cancelletto?) #Dilloinitaliano, sono proprio i Cruscanti del gruppo Incipit, da tempo meno puristi di tanti che, senza esser Cruscanti, tentano di esserlo più di loro. Essi sanno bene, e lo dichiarano, che una lingua non si può normare per legge, che ha dinamiche sue, indipendenti dai governi e dalle accademie. Assolutamente dipendenti, invece, dai contesti, da molto reali rapporti di forza, politici, sociali ed economici. Ne parla Truzzi sul Fatto Quotidiano di ieri.

Ciò che sta accadendo ultimamente è, indiscutibilmente, inquietante. È evidente che in molti casi ciò che agisce in questo pletorizzarsi di prestiti e calchi anglofoni, non è solo pigrizia linguistica, la debolezza di una lingua ormai ridotta ai suoi minimi termini, ma l’assuefazione allo strapotere di una lingua veicolare, l’inglese, da sempre, come tutte le lingue veicolari, latino in primis, linguisticamente ‘imperialista’. O anche (spessissimo) la volontà di usare la lingua non per dire, ma per tacere, non per esplicare, quanto per celare.

Esistono casi in cui il ricorso a termini stranieri è inutile, futile, o peggio, fuorviante, è una maschera ideologica, che tenta di nascondere quanto le parole dovrebbero indicare e svelare. Do il mio modesto contributo: che senso ha definire l’operazione di acquisizione ottico-digitale di un documento ‘scannerizzare’, con calco anglofono, se lo strumento stesso, lo scanner, ha un nome di evidente radice romanza? L’azione dello scanner è la scansione, esso ‘scandisce’, separa, per poi riprodurre. Ciò che fa lo scanner è, quindi, semplicemente ‘scandire’. L’italiano può dirlo da sé, senza calco alcuno.

La nostra è una lingua con un patrimonio lessicale piuttosto ristretto, ha molte parole in meno dell’inglese, del tedesco, fin del francese: perché impoverirla ulteriormente? I linguisti di Incipit invocano la responsabilità di chi adopera la lingua pubblicamente, giornalisti, politici, letterati, operatori dei media. Hanno ragione. Ma in ogni caso, temo, non basterà. Non solo perché in Italia la faccenda è complicata dalla persistenza dei dialetti (oggi divenuti, a loro volta, ibridi anglo-televisivi, impasti inauditi, in cui gli ‘schei’ e i ‘piccioli’ si mescolano felicemente al business, creando neo-lingue ‘pidgin’, ibridi che si fanno, malauguratamente, incubatori di ‘Heimat’ innumerevoli e orfane di vere identità), ma anche perché sin in letteratura l’idea di lingua si è fatta piatta, povera, essenziale, autocensoria.

La ricchezza lessicale e la complessità sintattica sono considerate, da tempo, un pericolo e una iattura da un’industria editoriale (e dalla sua forza lavoro: scrittori, saggisti, poeti, editor, critici) che di letterario ha ben poco. Né credo, dopo decenni di questa cura, che ci sia speranza alcuna: appare ormai complessa e quasi barocca sin la cristallina prosa di Calvino; Gadda è un Everest che sfugge a qualsiasi scalata, eppure il Pasticciaccio fu, pochi decenni fa, un libro largamente conosciuto e letto. Nel frattempo nelle scuole continuiamo a proporre come modello l’italiano dei Promessi sposi.

Diciamo la verità: i letterati per primi hanno tradito, hanno abbracciato entusiasti quella legge editoriale che stabilisce che meno sono le parole usate, più saranno le copie vendute. Non è un problema di responsabilità, ma di schei, o, se preferite, di business. Le lingue nascono, vivono, talvolta muoiono…

A furia di leggere i libricini di Moccia (e di tanti come lui, compresi alcuni che lo additano al pubblico ludibrio), o certi americani in traduzione americaneggiante (o certi francesi, svedesi, spagnoli, ecc., in traduzione altrettanto americaneggiante), ci resterà, così, solo l’italiano di Moccia e dei suoi libretti, ma non ce ne accorgeremo.

Ci sembrerà bello, quel libricino, solo perché lo chiameremo booklet: una roba rassicurante e ammiccante. Invece sarà l’insegna della più definitiva delle sconfitte, quella che stabilisce, una volta e per tutte, che l’italiano non esiste (più, o ancora) e che è ormai tempo d’emigrare in un’altra lingua.

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