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I dati resi noti dalla consueta relazione annuale trasmessa al Parlamento sull’attuazione della legge 194, non possono che farci piacere. Per la prima volta le interruzioni volontarie di gravidanza sono state meno di 100.000, a dimostrazione che la legge approvata nel 1978 è stata una buona legge. Numeri che dovrebbero far riflettere quanti ancora oggi non perdono l’occasione per auspicare un ritorno al passato, tentando di ostacolare, sia a livello pratico sia a livello psicologico, le scelte delle donne nel portare avanti o meno una gravidanza.

L’intento dei legislatori di allora, e di tutti i movimenti femminili che hanno contribuito all’approvazione, non era quello di far aumentare gli aborti, ma al contrario toglierli dalla clandestinità salvando la vita di tante donne e di renderli sempre meno frequenti grazie all’opera di prevenzione attuata dai consultori.

Intento raggiunto, almeno in parte. Questi numeri, infatti, potrebbero essere di gran lunga inferiori se non ci fosse stato in questi ultimi anni un progressivo smantellamento dei consultori, con la conseguenza che le più giovani generazioni e le donne straniere, si trovano private di quei preziosi strumenti di educazione e di informazione che hanno evitato a tante donne di dover ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza.

Non a caso la percentuale di abortività delle donne straniere è del 34%, una percentuale tre volte maggiore di quelle italiane, in generale, e di quattro volte per le più giovani. L’alto tasso di fecondità delle immigrate, accompagnato spesso dalla paura di rivolgersi a strutture pubbliche per la mancanza di permessi di soggiorno, fa temere che dietro i dati ufficiali ci sia altro e che molte di loro abortiscano clandestinamente. Così come dubbi si sollevano sui dati degli aborti delle giovanissime, anch’essi in diminuzione fortunatamente, che contrastano con le denunce di molti ginecologi che raccontano di ragazze giunte in ospedale con emorragie in corso per aver fatto uso del cosiddetto “aborto fai date”, quella pillola antiulcera, acquistabile in farmacia, che mette fine, con gravissimi rischi, a una gravidanza indesiderata.

Ci preoccupano molto inoltre i numeri relativi all’obiezione di coscienza, che ha raggiunto il 70% dei ginecologi. Non ci persuade l’affermazione del ministero della Salute secondo il quale questo alto tasso di obiezione non creerebbe problemi nel soddisfare la domanda di Ivg. Non ci persuade perché abbiamo testimonianze diverse, perché sappiamo che molte donne sono costrette a veri e propri pellegrinaggi da Regione a Regione per aver accesso all’aborto. Così come sappiamo che i pochi medici non obiettori rimasti sono costretti a turni estenuanti, che non permettono loro alcun altra attività professionale se non quella dell’Ivg, e che molti ospedali ricorrono a medici esterni pur di garantire il servizio.

Non pensiamo che il 70% dei medici ricorra all’obiezione per un motivo di coscienza, siamo convinte piuttosto che si tratti di scelte quasi “indotte”, legate alla possibilità di avere un lavoro o di fare carriera. Di fronte a questa situazione molti propongono il divieto di assunzione di medici obiettori. Ma anche questa sarebbe una discriminazione. Non pensiamo che la strada sia quella di impedire l’obiezione, ma l’obiezione non può e non deve essere una scusa per impedire un servizio. Siamo quasi certe che se si consentisse l’aborto nelle cliniche private l’obiezione calerebbe di colpo.

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