“L’accesso a Internet è diritto fondamentale della persona e condizione per il suo pieno sviluppo individuale e sociale”. E’ questo l’articolo 2 della Dichiarazione dei diritti in Internet, un documento composto da un preambolo e quattordici articoli che ha appena visto la luce nella sala del mappamondo della Camera dei Deputati. La presentazione è avvenuta a un anno esatto dall’annuncio, da parte della Presidente della Camera, Laura Boldrini, dell’istituzione della Commissione di studio per l’elaborazione di principi in tema di diritti e doveri relativi ad Internet, presieduta da Stefano Rodotà, con il compito, appunto, di arrivare alla stesura di un Internet bill of rights italiano ma con un’ambizione europea e, anzi, globale.

Non è, infatti, un caso che nella relazione di accompagnamento si citi espressamente il Marco Civil brasiliano – il primo Internet bill of rights ad essere approvato in un Parlamento – perché è proprio in Brasile, a Joao Pessoa, che il prossimo 9 novembre, nel corso dell’Internet Governance Forum 2015, Sir Tim Berners Lee – il papà del web – terrà a battesimo la nostra Dichiarazione dei diritti in Internet, nel suo debutto nella società internazionale.

Un gesto carico di significato perché, per una volta, il nostro Paese si presenterà alla comunità globale che si occupa di Internet, anziché per raccontare degli enormi ritardi e divide digitali che ne rallentano l’ingresso nella società dell’informazione, di una sua eccellenza nello studio ed elaborazione di un insieme di diritti che potrebbero davvero rappresentare il cuore di una Carta costituzionale del Cyberspazio.

E, in effetti, la Dichiarazione dei diritti in Internet “rischia” davvero di andare ad allungare l’elenco dei tanti esempi di italiche virtù destinati ad essere più apprezzati e famosi all’estero che nel nostro Paese, perché, in Italia, per il momento, sarà “solo” una mozione con la quale il Parlamento, a settembre, impegnerà il governo a tenere in debito conto i princìpi che vi sono fissati nelle future iniziative in materia digitale.

Non poco, naturalmente, ma meno di quanto meriterebbe un documento che non è esagerato definire storico, sia per il metodo attraverso il quale si è arrivati alla sua stesura – una commissione nell’ambito della quale parlamentari, esperti, stakeholder e società civile si sono confrontati in modo franco ed aperto, acquisendo decine di opinioni e pareri – sia per il suo contenuto.

E basta leggere alcuni passaggi dei quattordici articoli lungo i quali la Dichiarazione dei diritti in Internet si snoda per capire che si tratta di una Carta che va al cuore delle questioni dalle quali dipende il futuro della Rete in Italia e nel mondo e, attraverso la Rete, probabilmente quello di un’umanità che, ormai, vive, dialoga, cresce e si trasforma in una dimensione di interconnessione telematica costante ed universale.

E’ l’articolo 1, come è giusto che sia, che riassume il senso dell’intera dichiarazione: “Sono garantiti in Internet i diritti fondamentali di ogni persona riconosciuti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni Unite, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, dalle costituzioni nazionali e dalle dichiarazioni internazionali in materia”.

Internet non è un altrove rispetto ai nostri Stati, Internet non è un far west, Internet non è altro se non un ambito nuovo – e, anzi, ormai neppure così tanto nuovo – nel quale non c’è ragione per la quale non riconoscere, ad ogni essere umano, quei diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino attorno ai quali, la comunità internazionale, con alcune tristi eccezioni, si riconosce ormai da decenni.

E basterebbe, probabilmente questo, se la Dichiarazione dei diritti in Internet fosse, per davvero, una carta costituzionale – e basterà quando lo sarà – per far ordine tra tante piccole e grandi ingiustizie che i cittadini hanno subito e subiscono nella loro dimensione telematica, probabilmente, più spesso per mano degli Stati che li governano che dei grandi protagonisti privati del web che, pure, naturalmente, non sono senza “peccati”.

Deroghe ed eccezioni ai diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino sono, infatti, negli ultimi lustri – in Italia ed all’estero – diventate tanto frequenti da potersi considerare la regola.

La “velocità” delle comunicazioni online, l’immaterialità delle condotte nel cyberspazio, la dimensione extraterritoriale e globale della Rete hanno finito con il far passare un principio del quale sono intrise decine di leggi, secondo il quale ciò che è tecnicamente possibile fare per contrastare qualsiasi genere di fenomeno illecito – piccolo o grande che sia – può e deve essere considerato anche giuridicamente legittimo e democraticamente sostenibile.

Non si può, quindi, che salutare con entusiasmo – e forse un pizzico di patriottica fierezza – la Dichiarazione dei diritti in Internet, quando, navigando tra i suoi articoli, ci si imbatte nel diritto di accesso a Internet, in quello alla conoscenza ed all’educazione anche attraverso il web ed il digitale, nel diritto alla privacy ed all’identità personali ed in quello ad una rete neutrale nella quale ciò che si cerca ed i contenuti o servizi verso i quali si naviga non incidono sulla “libertà di circolazione” dei dati e degli utenti.

Ed ad una manciata di giorni dallo scandalo – troppo poco seguito e raccontato dalla più parte della stampa e dalla politica – di Hacking Team, non si può non trovare sacrosanto leggere che un testo di ispirazione costituzionale mette nero su bianco il diritto all’inviolabilità dei sistemi, dei dispositivi e domicili informatici.

Ma è difficile, in un insieme già tanto selezionato di diritti, sceglierne taluni da considerare più importanti degli altri e, quindi, non si può non citare il diritto all’identità personale, troppo spesso minacciato online e quello all’anonimato, come strumento necessario di esercizio di altri diritti e libertà che, purtroppo, la società non è sufficientemente matura da lasciar esercitare a volto scoperto.

Ed eguale menzione meritano il diritto alla sicurezza dei sistemi che costituiscono ormai l’infrastruttura democratica indispensabile, tra l’altro, all’esercizio dei nostri diritti di cittadinanza, quello alla lealtà dei gestori delle grandi piattaforme online globali attraverso le quali – ma verrebbe da dire nelle quali – ormai viviamo.

E, guai, infine a dimenticare quel quattordicesimo articolo – forse non a caso lasciato per ultimo perché resti più impresso – dedicato al governo della rete, giacché è evidente che non c’è principio che possa garantire sul serio un futuro libero, democratico e prospero ai cittadini del mondo ai tempi di Internet in assenza di “regole conformi alla sua dimensione universale e sovranazionale, volte alla piena attuazione dei principi e diritti prima indicati, per garantire il suo carattere aperto e democratico, impedire ogni forma di discriminazione e evitare che la sua disciplina dipenda dal potere esercitato da soggetti dotati di maggiore forza economica”.

Si è sbagliato tanto – forse troppo – nell’approccio ad Internet ed al digitale in questo Paese, troppe regole scritte dalla parte degli oligopolisti di ieri, troppe leggi basate su gravi fraintendimenti socio-economici, troppi ritardi nel guardare alla Rete come un’opportunità di crescita democratica e culturale prima ed economica poi.

Oggi, la dichiarazione dei diritti in Internet, presentata in Parlamento, elaborata in una dimensione aperta e multistakeholder e voluta dalla terza più alta carica dello Stato, rappresenta, forse, almeno un simbolo di riscatto e porta – se non altro – un messaggio di speranza, nella direzione giusta, invitando a credere che il nostro possa ancora essere un Paese capace di dire la sua a livello globale quando si parla di web, digitale e futuro.

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