Se se pol fa mia, se fa sensa“. Tradotto dal dialetto cremonese, “se non si può si fa senza”. Cioè il livello di spesa “giusto” dipende da quello che ti puoi permettere. E’ l’adagio che Carlo Cottarelli ha scelto come motto durante i dodici mesi trascorsi a Roma con il cappello di commissario alla spending review. Chiamato da Enrico Letta, confermato e poi accompagnato all’uscita dal governo Renzi, lo scorso 31 ottobre l’economista è tornato a Washington, al Fondo monetario internazionale, nel cui consiglio esecutivo rappresenta l’Italia e altri cinque Stati. Ora ha scritto un libro, La lista della spesa – La verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare (Feltrinelli), che è un viaggio nei meandri di come e quanto la Penisola spende ma anche un vademecum contro qualunquismi e leggende metropolitane. Per esempio non è vero che “tutta la spesa è spreco” né che “se si taglia si distrugge il welfare state“.

Partiamo dal suo addio. È stata una scelta obbligata, visto che i rapporti con il governo erano da tempo tesi?
Nell’ottobre 2013 sono arrivato a Roma con una nomina triennale, ma l’accordo era che sarei rimasto un anno. Fare il pendolare transatlantico con Washington, dove vive la mia famiglia, era abbastanza complicato. E dodici mesi dopo ho ritenuto di aver dato abbastanza contributi in termini di nuove idee. Certo, quell’anno è stato difficile. Non facevo parte della macchina della pubblica amministrazione, per cui certe informazioni non mi arrivavano e certi disegni di legge non mi venivano fatti vedere prima. Mentre ero lì che cercavo di tagliare la spesa, passavano provvedimenti che la aumentavano. L’ho detto pubblicamente. Ma la scelta di tornare negli Usa è stata legata a motivi personali.

Il premier Matteo Renzi, per spiegare “la differenza tra chi ha fatto il sindaco e di chi fa la spending da tecnico”, usò la sua proposta sulla riduzione delle uscite per l’illuminazione pubblica: disse che avrebbe creato “un allarme sociale pazzesco”. Lei, nel capitolo sulle spese dei Comuni, torna sulla polemica scrivendo che si può “risparmiare sui costi dell’illuminazione pubblica SENZA SPEGNERE LE LUCI DELLE STRADE DOVE CIRCOLANO I CITTADINI”. Caratteri maiuscoli voluti.
La mia idea non consisteva certo nello spegnere i lampioni lungo le vie più frequentate…si trattava di rendere più efficiente il sistema tagliando i punti luce su strade extraurbane, aree industriali, tangenziali. Questo partendo dal presupposto che il consumo annuo pro capite per illuminazione pubblica in Italia è più del doppio della Germania e della Gran Bretagna e un terzo in più della Francia. Avevo fatto una proposta dettagliata che avrebbe dato a regime risparmi per 400 milioni. Sta di fatto che non è stata adottata. A un certo punto ci ho sperato: una notte, andando in auto da Roma a Fiumicino, ho trovato i lampioni spenti e ho pensato “finalmente! Dev’essere un’iniziativa anti sprechi del Comune”. Poi però ho scoperto che il motivo era tutt’altro: avevano rubato i fili di rame degli impianti.

C’è un capitolo di spesa più piccolo (280-350 milioni compresi gli stipendi degli autisti) ma decisamente simbolico che lei puntava a colpire: le auto blu. L’anno scorso è stato varato un decreto per tagliarle, ma sta funzionando?
Il vincolo delle cinque auto per ogni amministrazione centrale stabilito con il Dpcm del settembre 2014 è operativo, sì. Peccato però che lo stesso limite sia previsto anche per le amministrazioni più piccole. La versione iniziale del provvedimento era diversa, vietava esplicitamente che quelle fino a 50 dipendenti potessero averne. Non ho idea di quando e da chi sia stata fatta la modifica, ma il risultato è meno ambizioso di quel che avevo sperato. In più c’è il problema delle sedi distaccate: il ministero della Giustizia per esempio ha auto blu sparse in tutti i tribunali d’Italia, con il risultato che a inizio 2014 ne contava 900 e ora sono poche di meno. Lì il progresso è ben più difficile. A questo aggiungiamo che gli enti territoriali non stanno facendo un bel niente: province, Regioni, Comuni, asl non si stanno adeguando. Il provvedimento non le vincola e loro stanno a guardare. Mi dicono che si è tentato di affrontare il problema, convincerle a adottare provvedimenti ad hoc, ma niente.

Uno dei capitoli fondamentali della sua spending review riguardava l’adozione dei costi standard per l’acquisto di beni e servizi e la riduzione delle stazioni appaltanti da 34mila a 35. Interventi con risparmi previsti, a regime, fino a 7,2 miliardi. In questo campo qualcosa si è iniziato a fare, anche se a rilento.
Sono stati pubblicati i prezzi di riferimento per gli acquisti fatti tramite Consip, ora ci si sta muovendo per calcolare anche i benchmark di prezzo dei beni comprati in modo autonomo dalle pubbliche amministrazioni. E il decreto 66 ha affidato all’Anac di Raffaele Cantone il compito di controllare il rispetto dei parametri, cosa che in precedenza nessuno faceva. Nel luglio dell’anno scorso io e Cantone abbiamo inviato 200 lettere a un campione di amministrazioni chiedendo di vedere i contratti, per capire se i prezzi a cui avevano comprato in autonomia erano più bassi di quelli Consip. Non tutti ha risposto e un numero non trascurabile non ha neppure cercato di sostenere di aver comprato a condizioni più convenienti. Temevo che la riforma poi si fosse bloccata, invece quando sono stato a Roma in missione per il Fondo ho saputo che è andata avanti, il commissario Yoram Gutgeld e Roberto Perotti ce l’hanno ben presente e la stanno seguendo. Entro la fine di giugno dovrebbe esserci l’elenco dei 35 soggetti aggregatori, poi bisognerà indicare le soglie sopra le quali gli acquisti dovranno passare per questi soggetti.

Veniamo ai costi della “casta”. Le spese per gli organi costituzionali e di rilevanza costituzionale, scrive, sono rimaste sostanzialmente invariate a 2,7 miliardi tra 2009 e 2013. E poi?
Poi è iniziata qualche riduzione e nel 2014 un ulteriore taglio con l’introduzione di tetti e sottotetti agli stipendi dei dipendenti di Camera e Senato. Certo, l’implementazione non è rapidissima: tre anni per arrivare a regime. Il processo è iniziato, ma più tardi che in altre parti della pa e non so se sia realistico immaginare ulteriori interventi. Quanto ai vitalizi, come è noto sono stati aboliti per chi adesso è ancora membro del Parlamento, ma si è fatto poco su quelli in essere e secondo me bisognerebbe fare di più non solo a livello di amministrazione centrale ma anche di Regioni. Alcune lo hanno fatto, anche se ci saranno ricorsi. Bisogna continuare perché, pur non trattandosi di grandi costi, sono cose che danno molto fastidio.

Per tutta la pubblica amministrazione, compresi i vertici delle aziende pubbliche, è stato fissato un tetto unico di 240mila euro. Si poteva fare di più?
Sì, la mia proposta era che venissero stabilite fasce differenziate. Dai confronti internazionali e aggiustando per il livello del reddito italiano emerge che i dirigenti pubblici, anche se non tutti, sono più pagati dei colleghi tedeschi e inglesi.

Il dibattito sulle spese militari tende a concentrarsi sul costo degli F-35. Ma nel libro lei spiega che tagliare quel programma non produrrebbe risparmi di spesa immediati.
Non spetta a un economista prendere posizioni sulla tipologia di armamenti scelti. Faccio solo presente che la spesa viene contabilizzata quando vengono consegnati e non quando vengono ordinati o pagati e visto che la consegna avverrà nei prossimi dieci anni la revisione del programma avrebbe effetti sulla spesa solo nel lungo periodo. Nel complesso comunque, utilizzando benchmark internazionali che tenessero conto del debito italiano e della rigidità della spesa per pensioni, ho calcolato che per essere in linea con l’Europa c’è spazio per risparmiare 2,7-3 miliardi di spese militari. E si può fare riformando i tribunali e la sanità militare, rivedendo la struttura degli stipendi, delle carriere e dei benefici dei dipendenti della Difesa, creando servizi interforze per alcune attività. La riforma fatta a fine 2012 sposta la spesa da una cosa all’altra, invece bisognerebbe puntare a un risparmio netto.

Lei è dell’idea che bisognerebbe tagliare gli assegni più alti “per trasferire risorse da chi è in pensione a chi lavora”. Su 739 miliardi di spesa pubblica primaria 320 fanno capo agli enti previdenziali, per cui, scrive, “un’operazione di revisione della spesa che escluda completamente le pensioni finirebbe per colpire in modo troppo forte le altre voci”.
Ovviamente sono scelte politiche, perché riguardano la distribuzione della spesa tra diversi gruppi di cittadini. Ma io sono un tecnico e il compito di un tecnico è presentare la verità delle cose: parliamo di una spesa molto elevata e dell’unica componente che tra 2009 e 2013 è aumentata. Quanto alle riforme fatte a partire dagli anni Novanta, sono state anche pesanti ma sia chiaro che colpiranno essenzialmente chi oggi ancora lavora. Chi è andato in pensione in passato con trattamenti generosi rispetto ai contributi pagati, invece, non è stato toccato. Tranne che con i blocchi parziali dell’indicizzazione ora bocciati. Nel libro peraltro cito due sentenze della Corte costituzionale degli anni Novanta in cui si diceva che per esigenze di finanza pubblica era possibile rivedere gli assegni già in essere.

Ma anche una volta che la politica ha deciso dove tagliare, il percorso è pieno di ostacoli: errori nella stesura dei decreti (anche quello “degli 80 euro”, che fu corretto in fase di conversione), “linguaggio incomprensibile”. E poi la famigerata “implementazione” dei provvedimenti.
Spesso le procedure che si introducono per l’attuazione dei decreti sono molto complicate. Per rendere operativo quello sui fabbisogni standard c’è voluto un anno, non a causa di ritardi ma perché il decreto stesso prevedeva un percorso in ben sei fasi. Quanto all’implementazione, non è che se la delega concede al governo 12 mesi quello ce ne deve per forza mettere 12: magari si può fare più in fretta. Per quanto riguarda il ddl delega sulla pa, per esempio, so che il dipartimento della Funzione pubblica sta già lavorando sui decreti legislativi per essere pronto subito. Speriamo. A valle, poi, ci sono molti controlli, ma sono sugli aspetti formali, cioè se la procedura è stata seguita, più che su quelli sostanziali, cioè se un certo dirigente non ha preso una decisione che avrebbe fatto risparmiare soldi allo Stato.

I famosi dossier sulla revisione della spesa dei gruppi da lei coordinati sono stati diffusi solo a fine marzo di quest’anno. Che fine avevano fatto?
Non mi spiego perché non siano stati resi pubblici prima. Penso che avessero di meglio da fare piuttosto che metterli online. Comunque alcuni di quei documenti erano buoni, altri meno. Gli otto messi a punto dai gruppi orizzontali (Pubblico impiego, Investimenti pubblici, Organizzazione della pa, Partecipate locali, Immobili Pubblici, Costi della politica, Fabbisogni standard dei comuni, Beni e servizi) contenevano proposte concrete, ma cinque non sono stati mai completati e i 12 dei gruppi di lavoro “verticali”, cioè quelli dei ministeri e degli enti territoriali, hanno tante pagine ma poche proposte di risparmio.

Lei è rimasto in sella per 12 mesi prima di tornare al Fondo. Pensa che in futuro vedrà i risultati concreti del suo lavoro?
Già nel 2014, con il decreto 66 e la legge di Stabilità, la spesa è stata ridotta di 12 miliardi, 8 al netto degli aumenti di uscite. Posso dire che su tanti aspetti, dagli acquisti della pa ai trasferimenti alle imprese ai tagli alla politica, qualcosa è stato fatto. Anche sui costi standard e l’efficienza nella sanità l’accordo tra Stato e Regioni recepisce molte mie proposte. Per quanto riguarda le società partecipate, nel disegno di legge di riforma della pa sono previste diverse misure di riordino. Speriamo sia la volta buona. La legge di Stabilità ha previsto che entro il 31 marzo Regioni, province e Comuni dovessero presentare piani di razionalizzazione, ma come spesso avviene era una scadenza “elastica” e chi non l’ha rispettata non rischia nessuna conseguenza. L’unico capitolo che non è stato toccato è quello delle pensioni.

Tutto considerato, ne è valsa la pena?
Rispondo con la citazione di Francesco Guccini che apre il libro: “Ma sei io avessi previsto tutto questo… forse farei lo stesso”.

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