Il concetto di “sviluppo economico” nasce il 20 gennaio 1949 con il famoso “discorso dei quattro punti”, pronunciato dal neo-presidente degli Stati Uniti d’America Truman all’atto del suo insediamento. Fino ad allora, il concetto di “sviluppo” trovava applicazione esclusivamente nei fenomeni biologici, in campo scacchistico e pochi altri ambiti. Qualche anno dopo, nel 1955, uno dei suoi consiglieri economici, Victor Lebow, decise di chiarire una volta per tutte su quali pilastri si sarebbe fondata la filosofia di ricostruzione postbellica occidentale:

“La nostra economia incredibilmente produttiva ci richiede di elevare il consumismo a nostro stile di vita, di trasformare l’acquisto e l’uso di merci in rituali, di far sì che la nostra realizzazione personale e spirituale venga ricercata nel consumismo. Abbiamo bisogno che sempre più beni vengano consumati, distrutti e rimpiazzati ad un ritmo sempre maggiore. Abbiamo bisogno di gente che mangi, beva, vesta, viva in un consumismo sempre più complicato e, di conseguenza, sempre più costoso.”

Nei miei ormai numerosi interventi su questo giornale, improntati alla promozione di quello stile di vita metaconsumistico che illustro e testimonio nel mio progetto divulgativo LLHT, ho ricevuto numerose critiche da parte di lettori che ancora oggi rivendicavano – legittimamente – il diritto di applicare alla lettera la ricetta Lebow.

Oggigiorno solo il 3% della plastica prodotta viene riciclata. Ogni giorno vengono riversati in mare cinque milioni di prodotti. Nell’Oceano Pacifico ci sono isole di rifiuti galleggianti grandi come il Texas. L’allarme climatico coinvolge ormai i vertici supremi della politica mondiale, che però lo usano come foglia di fico per nascondere le proprie legittime ambizioni espansionistiche. L’impronta ecologica mondiale è di uno virgola cinque: occorrerebbe un altro mezzo pianeta Terra per consentirci di mantenere l’attuale stile di vita. Agli Usa occorrerebbero due Americhe per sostenere il loro stile di vita, alla Cina servirebbero due Cine, al Giappone sette Giapponi, alla Germania due Germanie e mezze e a noi italiani, che non ci facciamo mai mancare niente, occorrerebbero quattro Italie e mezzo.

Il prezzo da pagare? Ve lo racconta meglio di quanto potrei fare io il primo tempo di Interstellar, l’ultimo capolavoro di Christopher Nolan: consiglio a tutti di godersi la prima ora del film, integrandola con qualche seria riflessione sul nostro imminente e probabile destino. Nella schiacciante maggioranza dei casi, l’essere umano non è mentalmente attrezzato per comprendere l’urgente gravità di un fenomeno che lo sta lentamente condannando, come il progressivo annientamento del proprio habitat: speriamo che il grande cinema dia una mano in questa presa di consapevolezza.

L’avverbio “legittimo“, che ho intenzionalmente appena usato due volte, è ineccepibile in termini legali, ma inammissibile in termini ecologici. C’è una disciplina che spiega queste cose. Affascinante ma, per la cultura dominante, pericolosissima. Proprio per questo, la bioeconomia è stata insabbiata per quarant’anni. Oggi che questa disciplina sta finalmente tornando alla luce, si stanno già prontamente adottando le contromisure: la mistificazione di tale concetto viene già infatti operata niente meno che dalla Commissione Europea, che ne stravolge la definizione originaria, banalizzandone il significato e alterandone le finalità.

Anche se a Bruxelles non lo sanno, la bioeconomia è in realtà una disciplina che, concependo ogni processo produttivo esattamente come un fenomeno naturale, sottrae la modellistica economica neoclassica al dominio culturale del determinismo matematico, affidandone invece le leggi a scienze naturali come la biologia e la fisica. Lo studio della degradazione entropica tanto dell’energia quanto della materia, imporrebbe all’attività economica umana un’immediata inversione di tendenza, per non compromettere irreversibilmente l’agibilità del nostro pianeta. La soluzione prospettata dal padre della bioeconomia, Nicholas Georgescu-Roegen, non risiede in un intervento sulle leggi che governano l’offerta, ma in una intenzionale rimodulazione globale della domanda. In altre parole: meno consumi. Che non devono essere stimolati, come predicano oggi i Templari della Crescita, bensì drasticamente inibiti. L’alternativa sarebbero cicli produttivi realmente sostenibili. Aggettivo che non significa “carini”, “verdi” e magari accompagnati da un bilancio di sostenibilità tutto colorato, ma caratterizzati da un’impronta ecologica rigorosamente inferiore a uno (risorse sistemiche assorbite inferiori alla biocapacità terrestre).

Ricette analoghe vengono oggi proposte, anche con argomentazioni diverse, da scienziati come Jeremy Rifkin o da economisti come Joseph Stiglitz, che prospettano un futuro – non troppo remoto – in cui il tempo di lavoro dovrà necessariamente subire una sostanziale contrazione, consentendo finalmente alle persone di tornare a godersi la vita e non alimentare la follia consumistica.

Parlare oggi di decrescita significa affrontare la questione in questi termini, evitando la retorica dei suoi detrattori che, quasi sempre in malafede, paventano derive neopauperistiche e un presunto ritorno alle caverne. Le soluzioni si chiamano sobrietà energetica, sobrietà consumistica, cultura del limite, esaltazione della prossimità, riappropriazione del proprio tempo, rifiuto del dogma dell’accumulo ad ogni costo, progressiva disintermediazione dal denaro.

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