Lorin Maazel ci ha lasciato. E’ stato un protagonista costante della scena musicale mondiale per quasi 70 anni, data la sua carriera iniziata precocemente, a soli 11 anni. E’ salito sul podio, instancabilmente, di tutte le maggiori orchestre del mondo, ha diretto molte volte popolari concerti tv, come quello tradizionale di Capodanno, a capo degli amati Wiener Philarmoniker (e molti hanno imparato a conoscere la sua fisionomia e il suo gesto, elegante e suadente, proprio in quella sede mediaticamente diffusissima).

E’ stato il beniamino dei pubblici di mezzo mondo per la sua prontezza e disponibilità, il repertorio vastissimo, dall’opera a quasi tutto quello sinfonico sette-otto-novecentesco. Ha inciso centinaia di dischi, integrali di quasi tutti i classici, era una bacchetta pronta a tutte le esigenze. E tuttavia il limite che Maazel ha sempre dimostrato, pur con il suo smisurato talento innato, la sua facilità tecnica leggendaria, la sua abilità estrema di orchestratore, in prova e in concerto, è stato quello di non avere saputo superare sé stesso. Le sue esecuzioni erano spesso ripetitive, senza guizzo, riproduzioni abbastanza fedeli di un copione che, sebbene scaltro e intelligente, non sapeva quasi mai essere geniale. E poteva scadere ancora, come nella sua sintesi sinfonica del Ring, non possedendo né l’istrionismo, né la geniale inventiva timbrica, e musicale di colui che solo si era potuto permettere simili ‘polpettoni’ musicali e cioè Leopold Stokowski.

Da poco la Universal aveva iniziato a festeggiarne la leggendaria carriera con un po’ di box ‘riassuntivi’, ma da cui raramente si potrà estrarre una esecuzione che riluca veramente nella complessiva discografia. Tranne uno. E questo è la sua esecuzione della Quarta di Mahler con i Wiener Philarmoniker, registrata nell’ambito dell’integrale messa insieme da Maazel per il centenario del compositore boemo. Una Quarta bellissima, in cui troneggia un movimento lento, il terzo, che ha pochi rivali tra le integrali, anche eccelse, reperibili sul mercato discografico. Per una volta il generalmente prosaico Maazel si innalza, con uno scatto che non gli riconosciamo normalmente, e nelle perorazioni finali del movimento diventa straziante per intensità e pathos, come un urlo liberatorio ma ossimoricamente trattenuto, ma di cui si percepisce bene il calor bianco, per poi sfociare in un quarto movimento di squisita poesia, di estasi commovente. Il paradiso fanciullesco immaginato nel Wunderhorn e musicato con semplicità da Mahler diventa visibile, attuato. E la magia è servita. Solo un’altra Quarta può stare all’altezza di quella di Maazel ed è quella, miracolosa, di Abbado con i Berliner. A riprova del fatto che, forse, Maazel per tutta la sua lunga vita ha ‘annoiato’ il suo proprio immenso talento, privandoci di un genio musicale.

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