Dalla Silicon Valley a Broadway: Lorenzo Thione, l’inventore di Bing, prende tutti in contropiede. “È stato un cambio di passo naturale a un certo punto – cioè nel 2008, quando Powerset, la startup che lancia due anni prima, vende il motore di ricerca a Microsoft per cento milioni di dollari -. Non era entusiasmante l’idea di rimanere nel campo informatico, avevo bisogno di nuovi stimoli”. Lorenzo, oggi 35enne, preferisce buttarsi in un altro settore, quello del teatro, di cui è solo un appassionato. “Avevo tutto da scoprire, imparare, inventare” dice. Il risultato è un musical, Allegiance, che racconta la prigionia dei cittadini americani di origine giapponese nella seconda guerra mondiale dopo l’attacco a Pearl Harbour. La prima dello spettacolo è all’Old globe theatre di San Diego un anno fa. La primavera dopo è il turno di Broadway. Lorenzo si trasferisce dalla California a New York.

La sua vita, però, inizia a Como, dove rimane fino alla maturità scientifica, e prosegue nei tre anni successivi a Milano, alla facoltà di ingegneria informatica del Politecnico. A 21 anni l’Italia gli sta già stretta: vola negli Stati Uniti, si laurea all’Università del Texas e accetta un’offerta di lavoro al centro di ricerca in tecnologia informatica di Palo Alto. “Qui mi sono occupato di intelligenza artificiale”. Cioè? “Di come il sistema informatico può comprendere il linguaggio umano attraverso un algoritmo”. Poi si mette in società e fonda Powerset. Obiettivo: vincere la concorrenza con Google nel campo dei motori di ricerca. Nasce Bing ma Google resta il numero uno. Non è una sfida persa in partenza? “No, Google all’inizio non capiva il contenuto del testo. Noi ci siamo chiesti se poteva esistere un motore di ricerca capace di coglierlo. È vero, non abbiamo messo in ginocchio il gigante ma gli abbiamo permesso di migliorare”. Lorenzo viene assunto da Microsoft. Due anni dopo molla tutto: la voglia di mettersi in gioco un’altra volta è irrefrenabile. Non è impazzito. Non vuole cestinare il successo, ma replicarlo. “Essere un imprenditore vuol dire essere creatore” è il suo motto. E per diventarlo, consiglia, “bisogna ragionare fuori dagli schemi e non avere paura di rischiare”.

Come fa lui, che decide di mescolare l’hi-tech con l’arte e si ritrova a teatro. “La spinta dell’imprenditore – aggiunge – è colmare un vuoto e creare delle opportunità”. Quel “vuoto” spesso scatta da una coincidenza (“che non avviene mai per caso – sottolinea lui -: se ti metti nella condizione mentale di cercare qualcosa, le occasioni le vedi e non te le fai sfuggire di mano”). La sua è stata quella di aver incontrato per due sere di fila George Takei, l’attore di Star Trek, in un teatro di Broadway: “La prima volta era dietro di me con suo marito e commentava uno spettacolo che aveva visto il giorno prima. La seconda, me lo sono trovato seduto di fianco e durante l’intervallo mi sono accorto che piangeva. Gli ho chiesto il motivo e lui mi ha risposto che le scene sul palco gli ricordavano un episodio di quando aveva quattro anni e fu deportato con la famiglia in un campo di prigionia dopo l’attacco giapponese alla base americana a Pearl Harbour”.

Una storia dimenticata che colpisce Lorenzo. “Ho pensato che l’avrei messa in scena”. Detto subito, fatto nel giro di sei anni. L’informatica come c’entra? “Il meccanismo del software vale per il teatro: la storia è nascosta dentro un blocco di marmo che va scolpito per eliminare il superfluo”. L’informatica quindi come modus operandi ma anche come strumento: “Ho usato i social network, da Facebook a Twitter, Pinterest e Instagram, per lanciare gli attori: il profilo su Facebook di Takei conta quasi sette milioni di like. Ho usato il crowdfounding in rete per cercare finanziamenti. C’è in progetto la proiezione tridimensionale della scenografia e la creazione di nuovi modi per fidelizzare il pubblico come i giochi a punti”.

Nel frattempo apre The Social Edge, un’agenzia di social media marketing. “Creiamo canali di interesse sui social network e vendiamo i dati a terzi”, spiega Lorenzo. Dall’esperienza nella Silicon Valley, si è reso conto che innamorarsi del percorso più che del risultato in sé è fondamentale per stare a galla e l’antidoto contro la paura di fallire è fare squadra. “Se quando fai qualcosa sei motivato solo dall’obiettivo, allora sei più vulnerabile e non hai gli strumenti per superare gli ostacoli”. Questo non significa che chi è forte non può mai sbagliare, ma che andare fuori pista non deve essere vissuto come un trauma. Anche a lui è capitato di fare fiasco: “Volevamo portare la share economy nel campo dell’arte – spiega – consentendo il noleggio nella propria casa di opere d’arte importanti. Ma dopo un anno siamo rimasti senza finanziamenti e il progetto non è decollato”. Non si è perso d’animo e si è rimboccato le maniche ancora. Più facile farlo negli Stati Uniti, dove “non ci sono differenze di accesso al mondo del lavoro in base all’età, basta l’entusiasmo per un’idea, e la burocrazia è molto più snella”, conferma. Tuttavia, non serve fuggire dall’Italia a ogni costo per fare strada. “Quello che conta è lo spirito di squadra e la ‘cultura del rischio’: ho incontrato tanti ragazzi italiani che ce l’hanno”.

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