La morte di Claudio Abbado non ci ha portato via solo la sua grandissima bacchetta: è come se avesse spento una delle poche vive voci con cui continua a parlarci la nostra Costituzione. «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura»: l’inizio dell’articolo 9 si incarnava nel dolce sorriso di Abbado, parlava con le sue parole, agiva con il suo lavoro.

Lo ha fatto per una vita da cittadino esemplare di questa Repubblica: e lo ha fatto (purtroppo solo) per qualche mese anche come senatore. Nominandolo, il presidente Napolitano aveva applicato doppiamente l’articolo 59 della Costituzione, quello che prescrive che i senatori a vita debbano aver «illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario». Già, perché Abbado ci ha illustrato – cioè ci ha donato luce – due volte: come grandissimo artista, e come protagonista del campo sociale, cioè come costruttore della società secondo il progetto della Costituzione.

«La musica costa? Facciamone di più»: in questo passo fulminante di un’intervista del 2010 c’era tutto intero questo spirito. Perché non era una battuta, uno slogan: era una convinzione profonda, un programma di vita. «La reazione che ho sempre avuto davanti a chi dice che la cultura costa troppo è quella di farne di più. La risposta deve sempre essere positiva. Se qualcuno si qualifica dicendo che la cultura non rende, si squalifica da sé. Ma bisogna ribattere con i fatti». 

Abbado non si limitava a denunciare la follia suicida dei tagli lineari che da decenni fanno lentamente, ma inesorabilmente, morire la musica lirica e sinfonica, la danza, il teatro, le biblioteche e il patrimonio storico e artistico: con dolce fermezza egli indicava la matrice ideologica di questa involuzione barbarica, quel neoliberismo per cui l’uomo si riduce all’unica dimensione economica. Abbado non pensava che il futuro della musica fosse ambire al ruolo di innocuo passatempo di una umanità così ridotta: egli ha sempre pensato alla sua arte (a tutta l’arte) come ad un mezzo di liberazione, di educazione, di dignità. Una via per il «pieno sviluppo della persona umana», per usare ancora parole della Costituzione.

Per ritrovare questa ispirazione, Abbado era andato all’altro capo del mondo, innamorandosi perdutamente della creatura di José Antonio Abreu, anch’egli direttore d’orchestra ma pure (cosa da noi impensabile) ministro per la cultura. Quella creatura è il Sistema Abreu: cioè la creazione di orchestre come mezzo di riscatto sociale in contesti difficilissimi, una realtà che ha formato generazioni di musicisti, ma soprattutto di cittadini. «Il sistema messo in piedi in Venezuela da Josè Antonio Abreu – ha detto Abbado – è la più grande, rivoluzionaria idea musicale degli ultimi decenni. Finora Abreu ha educato alla musica 300 mila giovani, sottratti alla povertà e alla violenza dei barrios, ragazzi che maneggiano uno strumento invece di una pistola. Quando suonano in orchestra danno l’anima, senza restrizioni, orari, regole sindacali. Impazziti per la musica. La Scuola di Fiesole ha invitato Abreu. Vorrei che in ogni regione italiana ci fosse una città dove sviluppare questo sistema». E proprio grazie al fortissimo sostegno di Abbado quel modello si è diffuso anche da noi, in alcuni dei più interessanti laboratori di cultura intesa in senso costituzionale, come il quartiere Sanità a Napoli o Matera.

Abbado ricordava spesso che «Siamo un paese ricco di cultura, ma l’ educazione latita perché la musica non viene riconosciuta come uno dei fondamenti della nostra vita culturale. Dal Venezuela, per quello che stanno facendo, noi occidentali abbiamo soltanto da imparare».

La lezione del Sistema Abreu è la stessa che la Costituzione ha iscritto tra i principi fondamentali della nostra comunità: il modo migliore per ricordare Claudio Abbado sarebbe impararla davvero.

 

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