Sembrano essere trascorsi secoli e invece è solo un ventennio fa che i Pearl Jam si accingevano, controvoglia, a varcare la soglia di un enorme successo, fino a diventare quello che sono oggi: dei “sopravvissuti” al rock, ma dalla passione immutata. Eppure, smaltita la sbornia da festeggiamenti per il ventennale, mai la band guidata da un uomo minuto come Eddie Vedder, la cui timidezza l’ha sempre portato ad avere un atteggiamento di basso profilo, avrebbe immaginato quel che le è capitato durante tutti questi anni. Ma sembrano oramai averci fatto il callo, se non addirittura averci preso gusto. Come si spiegherebbe sennò tutto quel sensazionalismo che si è andato via via creando attorno a questo nuovo disco uscito lo scorso 15 ottobre?

Si intitola Lightning Bolt il nuovo album, il decimo della loro carriera, e la prima cosa che colpisce è il titolo: mai prima d’ora era stato scelto riprendendo quello di una canzone in scaletta. Può esser considerata una minuzia, ma rappresenta un piccolo cambiamento, che si aggiunge ai tanti vissuti dalla band per via dell’età, dell’esperienza e dall’essere diventati mainstream. Una nota di merito va all’artwork del disco, da cui si evince l’occhio di riguardo che i Pearl Jam hanno sempre avuto nei confronti dell’arte, curato da Don Pendleton in collaborazione col bassista Jeff Ament, a cui in passato aveva disegnato la cover per il suo album solista di While My Heart Beats. Per ogni brano è stata ideata un’immagine che ne riassume il messaggio, in modo lampante, facendo pensare che ci si trovi dinanzi a un concept album. Per la copertina, però, si poteva fare di più, avendo optato più per il valore simbolico che estetico.

Composto da dodici canzoni, le cui sonorità non si discostano di molto da quel genere, il Grunge, che oggi appare più come una parola svuotata di significato, una piccola delusione può arrecarla a chi, ascoltando le parole pronunciate dal chitarrista Mike McCready a pochi giorni dall’uscita di  Lightning Bolt (“sarà un disco à la Pink Floyd”), aveva sperato in una nuova fase, magari più sperimentale, della band, piuttosto che produrre un disco che suona “più alla Eddie Vedder”. Come si spiega altrimenti la presenza di un brano “rivisitato”  come Sleeping by Myself, estrapolato dal disco solista del cantante Ukulele Songs?

Chi ha assistito dal vivo alle ultime performance della band, non ha potuto non far caso a come, sempre più, Vedder occupi maggiormente la scena, con le sue mosse da rocker riprese qua e là dai grandi del passato, quando un tempo, invece, s’arrampicava su pali, sostegni e telecamere per lanciarsi sulla folla in visibilio (vedere la performance di Porch al Pink Pop Festival del ’92). Mentre gli altri membri della band a tratti appaiono come figuranti e che in certi frangenti, scompaiono addirittura dal palco. Come quando è il momento di Just Breath, canzone la cui bellezza è indiscutibile, ma un fan non può non restare di stucco quando, nell’occasione, il volume della voce viene aumentato a dismisura, come a dire: “Ecco finalmente il momento che tutti voi aspettavate…”, e tutti su coi cellulari e smarthphone a mo’ di accendini.

Registrato agli Henson Recording Studios di Los Angeles, prodotto da Brendan O’Brien, la band ci ha lavorato per quattro lunghi anni: le aspettative erano tante, e così per il suo lancio hanno scelto di fare le cose in grande stile. Probabilmente esagerando, perché simili strategie sono più adatte ad artisti del calibro di Justin Bieber o Lady Gaga. Già nel mese di luglio, un countdown adatto a far salire nei fan in attesa la trepidazione, compariva sul loro sito ufficiale, indicando quanto tempo sarebbe trascorso dal lancio del nuovo singolo, Mind Your Manners, un pezzo punk rock, in classico stile PJ, che però a più d’un fan è apparso come una rivisitazione in chiave moderna, di Spin the Black Circle contenuta nel loro terzo album Vitalogy, datato 1994. Segno che anche loro, come già accaduto alle grandi band del passato come Rolling Stones o U2, arrivati a questo punto, sono costretti a cercare un compromesso, sia con i fan di lunga data – dei veri e propri integralisti, conservatori e tradizionalisti, ma solo verso i PJ, s’intende– sia con i nuovi, cresciuti a dismisura da quando Vedder compose la colonna sonora per il film di Sean Penn Into the Wild e che sempre più iniziano ad apprezzare la loro musica e i valori che li hanno resi grandi. Non tutti, del resto, optano per una scelta radicale come capitato agli R.e.m.: sciogliersi e lasciare che ognuno prenda la propria strada.

Sempre allo scopo di far salire l’eccitazione, il management a intervalli regolari ha lanciato in rete brevi videoclip, le celebri “Vignette” in cui, ogni componente della band dice la sua sul disco: nel primo, girato in bianco e nero, si vede il cantante concentratissimo dietro a una vecchia macchina da scrivere, tra gli scaffali di un magazzino, che picchia sui tasti: a ogni tasto corrisponde un accordo di chitarra. Sta componendo il riff iniziale di Mind Your Manners, e una volta terminato, in segno di vittoria alza la tastiera in aria come fosse un trofeo. Nel secondo, uscito in occasione del lancio del singolo intitolato Sirens – questo sì che ha tutti i connotati del singolone commerciale – il chitarrista Mike McCready accenna alcuni accordi con l’acustica mentre passeggia tra le rotaie di una ferrovia. In un altro, Stone Gossard è alle prese con fogli bianchi e gessetti neri, con cui scrive in vari caratteri la parola Pearl Jam. Nell’ultimo invece, sempre Eddie Vedder è alle prese con uno sport, molto in voga tra i boscaioli, il lancio dell’ascia.

È in definitiva un disco che segna – e non poteva essere altrimenti – una nuova stagione per la band di Seattle, non più giovanissima, e i cui componenti sono quasi tutti padri di famiglia. Certo, le sorprese non mancano, come Infallible, brano scritto a quattro mani da Stone Gossard e Jeff Ament, il cui sound ha un gusto dal sapore vintage che a tratti sfocia nel funky, o Pendulum, Future Days e Yellow Moon, pezzi che sarebbero stati buoni per Into The Wild, e che non mancheranno di affascinare la nuova leva di fan. La blueseggiante Let The Records Play,invece, riecheggia un Neil Young d’antan: lo “Zio Neil” a cui il disco è dedicato. Il brano d’apertura, potente, Getaway mette subito le cose in chiaro, come a dire “tranquilli, nonostante tutto, siam sempre Noi”.

Eddie dice di aver smesso di bere e di fumare – come del resto ha fatto lo Zio Neil, che da quando ha smesso di bere e fumare erba scrive libri per tenersi occupato (lo dice nella sua autobiografia Waging having peace) – di prendersi più cura di sé e del proprio corpo, e che le canzoni sono state scritte di notte, “quando ti sembra di essere l’unica persona sveglia per chilometri e chilometri. A quell’ora non c’è nessuno che critica quello che scrivi”. Neil Young, che i Pearl Jam considerano un esempio, alla loro età aveva pubblicato un disco come Harvest Moon. E del resto, il sentimentalismo in questo Lightning Bolt non manca: “Per tanti anni ho fatto giochi di parole per esprimere quelle emozioni – confessa Eddie Vedder in un’intervista a Rolling Stone – ma in modo tale da rimanere sempre criptico e misterioso. Suonare fa parte della vita di tutti noi. Ma è importante, per noi, essere parte delle nostre famiglie, essere dei padri presenti. E il fatto di pubblicare un disco in questo momento è un po’ una scossa che vogliamo dare all’intero sistema”.

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