Niente più commenti anonimi sull’Huffington Post (non è chiaro se su tutte le edizioni o se, per il momento, solo su quella statunitense, nda) a partire dalla metà di settembre.

Ad annunciare la decisione, Arianna Huffington in persona.

La notizia non può passare inosservata perché si tratta della decisione di un editore digitale che dall’inizio della sua storia ad oggi ha pubblicato oltre 260 milioni di commenti in forma anonima, quasi anonima e non anonima.

Alla base dell’annuncio della fondatrice di una delle testate telematiche più note del web vi sarebbe il crescente numero di troll e di commenti violenti ed aggressivi che si registrano sulle pagine dell’Huffington Post.

Quello dell’anonimato online – nei commenti dei lettori di un quotidiano, come nelle piattaforme di social network, nei blog e su ogni altra forma di bacheca virtuale accessibile online – è un problema ormai noto sul quale, tuttavia, chiarezza e cautela non sono mai abbastanza.

E’ bene, innanzitutto, chiarirsi su cosa si intenda quando si dichiara di voler bandire i “commenti anonimi” dalle pagine di un giornale online.

Chiedere che gli utenti “firmino” il loro post anche se con un nick name, uno pseudonimo o un qualsiasi nome e cognome? Esigere che i lettori di un giornale – così come gli utenti di qualsiasi altra piattaforma online – prima di pubblicare un qualsiasi commento debbano registrarsi lasciando un indirizzo mail attivo o utilizzando le proprie credenziali (user id e password nda) di un qualsiasi servizio online (Facebook, MSN, Twitter ecc.)? Pretendere che gli utenti si registrino in maniera “forte” ovvero si lascino identificare dall’editore e/o dal gestore della piattaforma facendosi guardare negli occhi (e come?), trasmettendo una copia di un documento di identità o magari con firma digitale?

Il problema – che probabilmente la fondatrice dell’Huffington Post non ha ancora del tutto esploso – è duplice e riguarda da un lato l’attuabilità del proposito di vietare i commenti anonimi dalle pagine di un giornale e dall’altro – ammesso che il primo sia superabile – l’opportunità di una scelta di questo genere.

Sotto il primo profilo è evidente che esigere – come, peraltro, già oggi accade sulle pagine della più parte dei quotidiani online e delle bacheche virtuali – che lettori e utenti prima di postare un commento debbano lasciare un indirizzo e-mail o lasciarsi “riconoscere” con modalità “light”, serve a poco o a nulla perché, allo stato, ottenere indirizzi mail o altre “credenziali virtuali” poco o niente affatto attendibili è un gioco da ragazzi.

Avere un commento “firmato” da Paolo Rossi, se Paolo Rossi è, in realtà, Mario Bianchi che ha utilizzato una mail o un profilo Facebook apparentemente riconducibile a Paolo Rossi serve solo a far confusione o, a tutto voler concedere, a disincentivare un po’ l’uso in forma anonima di certi servizi di comunicazione.

In genere, peraltro, a fornire le credenziali reali sono proprio quegli utenti che mai utilizzerebbero lo spazio messo a loro disposizione da un giornale online per offendere o incitare all’odio o alla violenza.

E’ difficile, per non dire impossibile – almeno allo stato – ipotizzare forme di identificazione “forte” degli utenti che siano compatibili con la necessaria “usabilità” delle piattaforme: non si può certo pretendere che il lettore di un giornale, prima di postare un commento, debba presentare – amesso che sia utile – da qualche parte un suo documento di identità o, magari – sempre ammesso che serva a qualcosa – inviare un fax!.

Ma il punto non è questo perché, in giro per il mondo, in effetti, esistono decine di sistemi di identificazione, da remoto, più o meno affidabili e, magari, idonei allo scopo.

Il punto è se procedere in questa direzione, ovvero, porre l’editore di un giornale o il gestore di una piattaforma telematica nella disponibilità dell’identità anagrafica di chi scrive un commento sia opportuno ed auspicabile.

Al riguardo sembra innanzitutto utile ricordare che i Garanti Privacy europei – inclusa la nostra Autorità Garante – da tempo suggeriscono agli utenti di interagire con le piattaforma di social network in forma anonima o, almeno, utilizzando degli pseudonimi e, soprattutto che, il relatore speciale delle Nazioni Unite per la promozione e tutela della libertà di parola ha spesso ricordato come, proprio l’anonimato, sia un presupposto indefettibile per l’esercizio di tale libertà e, come, per tanto, tutti gli stati dovrebbero garantirlo.

E’ innegabile che consegnare a un editore o al gestore di una qualsiasi piattaforma elettronica la mia identità anagrafica ricollegata o ricollegabile alle mie convinzioni politiche, culturali, religiose espresse in un commento esponga la mia privacy a una serie di rischi di violazione, anche solo potenziali, importanti.

Allo stesso modo è innegabile che la stessa esistanza di una miriade di basi dati di questo genere esporrebbe l’identità di ciascuno di noi a rischi enormi di essere sottratta e fraudolentemente utilizzata da terzi.

Ma è, purtroppo, soprattutto innegabile che, in molti contesti socio-politici – non necessariamente nei Paesi che siamo abituati a “bollare” come non democratici – certe opinioni non possano essere espresse con il proprio nome e cognome senza esporsi al rischio di essere poi discriminati per ciò che si pensa e per ciò che si è scritto.

Cosa fare, dunque, per uscire dal cul de sac nel quale il sistema dell’informazione online e della comunicazione telematica sembra destinato a rimanere intrappolato?

Sarebbe, infatti, un “sacrilegio democratico” se, proprio quando miliardi di persone hanno “conquistato” la libertà di parola, per colpa degli eccessi di taluni e di scelte imprenditoriali – perché di questo si tratta – affrettate e poco ponderate, possano vedersela sottrarre di nuovo.

La soluzione è complessa ma alcuni profili non possono essere trascurati.

Il primo, indefettibile, è che chiunque deve restare libero di esprimersi online, almeno, utilizzando un nickname o uno pseudonimo che non lo renda immediatamente riconoscibile ai più se non lo desidera.

Il secondo è che l’identità personale è un elemento troppo importante nella vita di un uomo – specie nel nuovo contesto digitale – perché possa essere affidata a soggetti privati e calata nelle dinamiche di relazioni finanziarie, commerciali e politiche.

L’unico tenutario di qualsivoglia genere di elemento rappresentativo dell’identità di una persona deve restare lo Stato, come attualmente avviene per l’identità anagrafica.

Il terzo ed ultimo elemento, tra quelli più facilmente enucleabili, è che all’identità personale anagrafica di chi ha pubblicato un contenuto online deve poter risalire solo la magistratura qualora ciò si renda necessario per l’accertamento di un novero di reati davvero gravi e rilevanti.

Quale che sia l’opinione di ciascuno, tanto appare sufficiente per dire che il tema non può essere affrontato nei termini d’uso di questa o quella piattaforma online ma merita un approfondimento serio da parte dei governi a livello necessariamente internazionale.

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