La “finanza creativa” per le grandi infrastrutture serve assai più a mascherare i veri costi per lo Stato e la collettività, che ad aumentare l’efficienza degli investimenti. E il cosiddetto Project Financing (PF), la compartecipazione pubblico-privato nelle infrastrutture è l’emblema più noto di una fantasia che teoricamente nasce con intenti virtuosi, ma di fatto è la fabbrica del nuovo debito pubblico occulto che rischiamo di lasciare ai posteri.

Il PF vuole sfruttare l’efficienza e il know how del privato, incentivato in modo opportuno, per ovviare ai difetti delle gestioni pubbliche. Il concessionario privato sarà motivato a minimizzare non solo i costi di costruzione, come nei normali appalti, ma anche di gestione del progetto, cercando di massimizzare l’utenza, essendo ripagato dalle tariffe. Il problema di tale schema applicato alle infrastrutture è nel “rischio commerciale” (o “rischio traffico”). Il concessionario privato ha strumenti per ottimizzare gli aspetti costruttivi e gestionali (i “rischi industriali”), ma non per condizionare la domanda di traffico. Se dunque il “rischio commerciale” per le infrastrutture, è lasciato dal concedente pubblico interamente al soggetto concessionario privato, questi dovrà cautelarsi, alzando i corrispettivi richiesti e/o chiedendo garanzie contro una domanda inferiore al previsto, flessibilità tariffaria o di durata della concessione.

Domani è un altro giorno
Dal lato del concedente pubblico, spesso l’obiettivo è aggirare vincoli di bilancio. Schemi di PF si prestano bene a tale scopo: è sufficiente fornire al concessionario garanzie adeguate, per minimizzarne i rischi, e l’opera può essere subito cantierizzata, rimandandone i costi reali per lo Stato a tempi così lunghi da essere politicamente irrilevanti. In Italia nel secolo scorso vi furono massicce emissioni di obbligazioni garantite dallo Stato per diverse autostrade,basate su piani di rientro irrealistici. I costi pubblici finali di riscatto delle obbligazioni furono altrettanto elevati quanto occulti. Anche l’Alta velocità ferroviaria si basava inizialmente su obbligazioni garantite che non sarebbero mai state ripagate dai ricavi da traffico e dovette intervenire l’Europa a porre fine a quello schema: lo Stato dovette pagare nei primi anni 2000 12 miliardi cash alle Ferrovie dello Stato (in seguito FS), la notizia meritò solo un trafiletto sul Sole 24 Ore.

Le difficoltà finanziarie delle casse pubbliche, connessa alla bassa redditività degli investimenti, hanno stimolato la fantasia di promotori e costruttori, con un dispositivo “creativo” di finanziamento noto come “canone di disponibilità” (inventato per il progetto del Ponte di Messina): il gestore dell’infrastruttura (Rete Ferroviaria Italiana-FS, nel caso del Ponte), non paga un pedaggio variabile al costruttore dell’opera, ma una quota fissa annuale. Che, per definizione, non dipende dal traffico. L’opera si realizza se si determina un “canone di disponibilità” tale da ripagarla. Se poi il traffico sarà inferiore al previsto, peggio per l’ incauta FS. Il principio del PF è salvo, e il vincolo di bilancio aggirato (FS è una SpA, formalmente assimilabile a un privato). Lo schema può funzionare in quanto FS è in realtà pubblica e percepisce alti trasferimenti dallo Stato, pagatore di ultima istanza dell’operazione. Sembra che per la ferrovia Av Milano-Genova si sia tentata tale operazione, ma i risultati siano apparsi così indifendibili data la scarsità dei ricavi previsti, che si è scelto di addossare allo Stato il 100 per cento dei costi.

Il caos nei cantieri
Per le metropolitane il sistema è diverso, ma la sostanza identica: i sussidi pubblici al servizio sono assimilati a ricavi tariffari privati e sono commisurati, a volte, al traffico di passeggeri, comunque “garantito” ex-ante, a volte addirittura alle singole vetture che percorrono la linea (cioè all’offerta, non alla domanda). Basta calibrare il tutto, per garantire al concessionario un flusso di ricavi adeguato. Quanto alle autostrade, la crisi economica, con il conseguente calo del traffico e l’aumentato costo del denaro, ha messo in crisi i piani finanziari di molte opere in PF, soprattutto in Lombardia dove molti cantieri sono stati aperti con prestiti-ponte. Emerge quindi l’incongruenza tra rendimenti attesi per le ferrovie e per le autostrade: i fondi pubblici assegnati fin dall’inizio a queste ultime sono solo parziali, al contrario di quelli per le ferrovie. E in nessuno dei due casi commisurati alla utilità sociale. La decisione di quante risorse assegnare dovrebbe essere affidata ad autorità terze che facciano analisi costi-benefici imparziali e comparative, che ne verifichino l’utilità (risparmi di tempo, ambiente ecc.)

Forse “si stava meglio quando si stava peggio”: gare normali per gli appalti, al massimo oggi integrate con la gestione, e il rischio traffico attribuito a chi se lo può davvero assumere, cioè allo Stato.

Il Fatto Economico – Il Fatto Quotidiano, 11 Maggio 2013  

 

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