Cala il sipario sulle Olimpiadi di Londra 2012. Se dal punto di vista sportivo resteranno impresse nella memoria le mirabolanti imprese di Bolt e compagni, dal punto di vista organizzativo Londra si è rivelata una città superlativa sotto tutti gli aspetti. E non c’era certo bisogno di un’Olimpiade per accorgersene. Per due settimane, con sporadiche eccezioni, la città è stata pure baciata dal sole come ad agosto da queste parti capita di rado. Decine di migliaia di volontari sparsi per la città hanno aiutato cordialmente tifosi e appassionati, e le code agli ingressi dei siti olimpici scorrevano rapide come solo oltremanica. Dal punto di vista della sicurezza, la più grande preoccupazione per gli organizzatori, tutto è filato liscio. O quasi.

Innanzitutto, l’eccessiva militarizzazione della città – arrivata fino al punto di installare batterie di missili sui tetti delle case e nei parchi – ha creato una situazione di paranoia diffusa che mal si è coniugata quello di una festa olimpica. Poi, la decisione di appaltare buona parte del sistema di sicurezza a multinazionali private si è rivelata un fiasco clamoroso, sia dal punto di vista organizzativo che da quello economico. Costringendo addirittura il governo a richiamare i militari in vacanza di ritorno dall’Afghanistan. Il clima di ‘terrore’ imposto dagli organizzatori ha portato inoltre a una drastica limitazione delle libertà personali e a diversi e disagi per l’economia cittadina. Da una parte si è assistito ad arresti arbitrari e ingiustificati di teatranti che inscenavano performance ecologiche, o di ciclisti che tornavano a casa la sera, colpevoli solo di passare per la medesima strada su cui sfrecciava David Beckham con la fiaccola olimpica.

Dall’altra, l’aver insistito troppo sull’allarme sicurezza ha finito con l’allontanare dapprima i turisti stranieri e poi financo i londinesi dai luoghi simbolo della città, con ingenti perdite per il settore del turismo e dell’intrattenimento, colonna portante dell’economia cittadina. Al di là dell’eccellente aspetto organizzativo e della catastrofica gestione del problema sicurezza, questi Giochi saranno ricordati soprattutto per l’egemonia totale raggiunta dagli sponsor: molti dei quali discutibili già di per sé. Il controllo delle aziende sulla manifestazione si è imposto a spese della libertà personale degli individui, e la loro incapacità di gestire il proprio monopolio ha sfiorato il ridicolo. Agli sponsor è stata poi concessa la prelazione sui biglietti, senza assicurarsi che fossero poi effettivamente utilizzati, causando degli imbarazzanti vuoti sugli spalti, riempiti poi dagli organizzatori, con colpevole ritardo e in maniera coatta, attraverso l’uso di militari e volontari. E, dulcis in fundo, agli sponsor è stata concessa un’ingiustificata esenzione dalle tasse che ha sottratto diverse decine di miliardi all’erario.

Per adesso si sa che Londra 2012 è costata alle casse dello stato e della città ben 24 miliardi di sterline (a fronte di una previsione iniziale di 2,4 miliardi nel 2005) e che le operazioni di lobbying per rientrare delle spese sono state un fallimento. D’altronde, se da Barcellona ’92 in poi l’organizzazione delle Olimpiadi ha creato enormi deficit nel bilancio pubblico e guadagni solo per alcuni soggetti privati, senza mai aiutare né lo sviluppo né l’occupazione nelle città e nei paesi che le hanno ospitate, un motivo ci sarà. Il carrozzone olimpico è un affare per pochi intimi, e Londra 2012 non è stata un’eccezione. Paradigmatica la decisione (ascrivibile al precedente governo laburista, a livello nazionale e locale) di voler creare il Parco Olimpico nei quartieri dell’East End: una zona centrale eppure poverissima. Per avere così la possibilità di cambiare i piani regolatori di questi quartieri e rendere edificabili alcuni terreni, con lo scopo di permettere speculazioni edilizie a qualche amico piuttosto che voler riqualificare aree immerse nella miseria. E quando sui Giochi della XXX Olimpiade il sipario calerà del tutto, i problemi messi in ombra dall’oro luccicante delle medaglie verranno alla luce. E la Londra i conti li farà allora.

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