Parlar male delle Olimpiadi è come rubare in chiesa o sparare sulla Croce Rossa. Non si fa, rivolta l’animo come la peggiore delle viltà. Le Olimpiadi richiamano i più edificanti sentimenti di pace fra le nazioni, gli ideali di sana competizione sportiva, di disciplina personale e rigoroso lavoro.

A me invece le Olimpiadi hanno sempre fatto venire la depressione. Sarà anche la stagione: si tengono sempre in agosto, all’apice del caldo, e a vedere tutti quegli atleti sudati che faticano nella polvere delle piste, a me viene ancora più caldo. Mi manca l’aria, mi ricorda l’estate in cui fui rimandato in matematica e le equazioni di secondo grado mi chiudevano gli occhi almeno quanto il nuoto sincronizzato. Ci sarà anche il fatto che mi perdo sistematicamente le poche gare che mi interessano. So già che mancherò i cento metri maschili ma che sarò inutilmente davanti al televisore per la finale di trampolino elastico femminile.

L’incombente ossessione della festa permanente, il tripudio obbligatorio per ogni vittoria italica, l’estenuante annuncio di spettacoli mai visti, di record mai battuti, i servizi speciali, gli inviati, gli inserti dei giornali che mostrano atleti con i muscoli deformati dallo sforzo, uomini che sembrano oranghi e donne che sembrano uomini. E poi i giornalisti scamiciati e coperti di lasciapassare che sciorinano minuti primi e secondi, che parlano di gente mai sentita prima, di sport dove non sapevamo che c’è un nostro carabiniere che è bravissimo e non fa altro tutto l’anno. Altre facce sudate, le voci dei televisori nelle strade delle città vuote o sopra il brusio di una spiaggia, dove qualcuno dal bar di colpo esulta e agita il braccio. Cos’è successo? Ha vinto alla lotteria? E’ diventato papà? No, l’Italia ha vinto il bronzo al fioretto. Ricordo certi lenti pomeriggi scanditi dalle telecronache ossessive di gare improbabili, il tono concitato del cronista che sembra stia descrivendo un allunaggio invece è solo badminton. Sono ore che si prestano al crimine, alla tragedia familiare, al gesto inconsulto. È lì, durante la finale di taekwondo, che un quieto pensionato potrebbe alzarsi di colpo dal divano e uccidere la moglie a martellate, che un padre di famiglia potrebbe chiudersi in cucina, aprire il rubinetto del gas e far saltare per aria tutto il condominio.

Una delle cose più insopportabili delle Olimpiadi televisive sono gli spot pubblicitari. Tutta roba da bere, che a vederla fa venire ancora più sete e mi fa sentire ancora più inadeguato allo sforzo, io che avrò sudato come un cavallo solo per venire al bar in bicicletta sotto il sole cocente. Ma il trionfo dello squallore, il giorno più triste dell’estate olimpica è la cerimonia di chiusura. La voce rotta dei cronisti, le facce esultanti dei premiati che ridono e piangono e ringraziano la mamma i fuochi artificiali, i giochi di luci e suoni, la pioggia di bandierine, coriandoli, stelle filanti, palloncini e infine quell’attimo prima che arrivi la sigla, quando si vedono uscire da dietro le transenne i primi spazzini che cominciano a dare i primi colpi di ramazza a quella marea sconfinata di pattume. Ecco, sono quelle le Olimpiadi: tutto il pattume che c’è da spazzare via dopo. Dal villaggio olimpico, dalle strade di Londra, dagli studi televisivi, dalle nostre teste ubriache e contaminate, da questo mondo dove tutto è gara, record, risultato, impresa eccezionale e non c’è più diritto alla noia.

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