Mancava solo lui, Pietro Ichino: quello che vuole risolvere il problema del precariato semplicemente precarizzando tutti, in base al principio scientifico “mal comune, mezzo gaudio”.* Ultimamente la ministra Fornero lo sta surclassando: il buon vecchio Pietro sta quindi cercando altri campi per disseminare le sue straordinarie intuizioni e ha ben pensato di intervenire sulla Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR). 

Concepita dall’Agenzia Nazionale di Valutazione (ANVUR) per valutare dipartimenti universitari ed enti di ricerca, la VQR finora è servita più che altro a dimostrare l’incompetenza dell’ANVUR stessa e di molti sedicenti valutatori: le sue “peculiarità” sono oggetto di un acceso dibattito, ma bisogna riconoscere ad Ichino che la sua proposta è di gran lunga la più stroboscopica.

Per apprezzarne l’eccezionale portata basta una rapida lettura delle regole della VQR: in breve, ogni dipartimento deve sottoporre all’ANVUR tre diversi “prodotti della ricerca” (articoli scientifici, libri, manufatti etc.) per ciascun ricercatore e professore che ha in organico. Per gli enti di ricerca il numero pro capite è elevato a sei: ad esempio, l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) dovrà sottoporre a valutazione la bellezza di 6600 differenti  “prodotti” del settennio 2004-2010. Ad ogni “prodotto” l’ANVUR attribuirà poi un punteggio numerico che dovrebbe misurarne la “qualità” in base a vari criteri: nella realtà questi ultimi sono a dir poco discutibili, ma supponiamo pure (solo per il breve spazio di questo post!) che siano invece sagaci e sacrosanti.

Il processo pare quindi semplice: basta che ogni ricercatore selezioni i suoi tre (o sei) “pezzi migliori” e li comunichi al suo ente o dipartimento, che li raccoglie e li invia all’ANVUR per il calcolo del totale…  ma ecco puntuale spuntare l’inghippo. La stragrande maggioranza dei progetti di ricerca viene infatti realizzata e firmata da collaborazioni di due o più ricercatori, fino ad arrivare alle svariate centinaia degli esperimenti al CERN di Ginevra. I co-autori sceglieranno ovviamente tutti gli stessi “prodotti” (quelli con punteggio più alto), ma se sono inquadrati nello stesso ente non va bene perché gli articoli presentati devono essere tutti diversi! Ma allora come si fa?

Dopo aver scartato a malincuore l’ipotesi darwiniana (si chiudono tutti i co-autori in una stanza fino a quando non ne sopravvive solo uno), l’ANVUR ha prescritto che l’attribuzione delle pubblicazioni venga decisa dalla struttura di appartenenza. Quindi enti e dipartimenti hanno assegnato d’ufficio ciascun “prodotto” ai suoi singoli ricercatori in base all’ovvio criterio di massimizzare il punteggio totale. Questo criterio ha però delle bizzarre ripercussioni sui casi individuali: infatti paradossalmente premia i “fannulloni” e punisce i “produttivi”.

Prendiamo il caso di due ricercatori che hanno firmato insieme il loro articolo migliore (da 10 punti). Il più “produttivo” dei due ha un secondo miglior articolo che vale 5 punti, mentre  il “fannullone” ne ha uno da soli 2 punti.  A chi si assegna l’articolo da 10, e a chi la seconda scelta? E’ facile: se la struttura assegna l’articolo da 10 punti al “produttivo” e la seconda scelta al “fannullone” ci rimette, perché totalizza 10+2=12 punti. Quindi assegna l’articolo da 10 al “fannullone”: il totale schizza a un sonante 10+5=15 con buona pace del “produttivo”, che in classifica si ritrova dietro al “fannullone”!

Poco male, direte voi: tanto quello che conta è il punteggio globale. Ma proprio a questo punto, nelle menti di migliaia di ricercatori italiani è germinato un atroce sospetto: “Va bene tutto, ma siamo proprio sicuri sicuri che a qualcuno non salti il ghiribizzo di usare questa schifezza per valutare me singolarmente?” I ricercatori sono ormai allertati da anni e anni di fregature costanti: al punto che, spinto dall’inquietudine della base, il presidente dell’INFN Fernando Ferroni ha chiesto assoluta chiarezza sull’impossibilità di un simile uso durante un recente convegno. Certo, l’insensatezza di una tale ipotesi è talmente evidente che nessuno potrebbe seriamente pensare di farlo, ma…

Ebbene, ci credereste? I ricercatori hanno mille motivi per girare con le mutande di latta. Entra in scena Ichino, che con fiero cipiglio il 4 maggio inoltra un esposto al Garante della privacy e alla CiVIT (Commissione indipendente della Valutazione della Trasparenza e Integrità) proprio per chiedere che i dati e i punteggi VQR riferiti ai singoli ricercatori vengano resi pubblici e diffusi in ogni dove. Non solo per esigenze di trasparenza: tali dati (secondo lui) sono di “importanza essenziale” per la “crescita qualitativa della comunità scientifica” e pure per gli studenti universitari, che “devono poter determinare i propri piani di studio e di ricerca sulla base di informazioni complete circa la produttività scientifica dei docenti disponibili”.

L’imbarazzo raggiunge però l’apice venerdì scorso, quando la presidentessa della CIVIT Romilda Rizzo accoglie con entusiasmo l’esposto invitando atenei ed enti di ricerca a procedere alla pubblicazione e gettando tutti in un malinconico sconforto. Risultato: la protesta dal CNR si estende anche ai fisici dell’INFN che chiedono a Ferroni di sospendere la trasmissione dei dati VQR all’ANVUR, fino a totale e definitivo chiarimento della situazione.

Nella speranza che qualcuno si dia una svegliata proviamo a guardare il lato positivo: forse abbiamo guadagnato una bussola per trovare la via di uscita dalla crisi. Se Ichino capisce di mercato del lavoro quanto capisce di valutazione della ricerca, per salvarci ci basterà ascoltare le sue proposte… e fare l’esatto contrario!

*Nota bene – Sia chiaro che le posizioni divergenti con il professor Ichino da me esposte rimangono come è ovvio in un ambito di dibattito civile prendendo le distanze da chi giusto ieri lo minacciava in modo assurdo e indegno.

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