Il 2009 è stato l’anno in cui l’Italia ha battuto il primato dei morti per suicidio in carcere: 72, con un aumento nel decennio 2000-09 del 300% rispetto al decennio 1960-69. Questo dato è ragione sufficiente per leggere Camosci e girachiavi. Storia del carcere in Italia (Laterza, 2009, 18 Euro), dello storico Christian G. De Vito, definito dal prefatore Guido Neppi Modena come “finalmente una storia dalla parte dei detenuti” (viii). E proprio i detenuti sono i “camosci” cui si riferisce l’originale titolo, così chiamati nel gergo carcerario per via della loro uniforme, mentre è più intuitivo che i “girachiavi” siano le guardie penitenziarie.

La scelta di un titolo così interno alla realtà carceraria si spiega con la formazione di De Vito, che non è solo un serio ricercatore perfezionatosi alla Normale di Pisa, ma anche un appassionato sostenitore dei diritti sociali e civili. Durante questi anni di servizio civile, l’autore ha potuto raccogliere un’inedita e ricca documentazione rappresentativa dell’universo penitenziario italiano visto dal di dentro, sommando alle fonti più istituzionali una vasta memorialistica (in particolare le lettere dei detenuti, e fra queste soprattutto quelle sequestrate dalla direzione e mai spedite) relativa agli istituti di pena o alle case circondariali di sedici città italiane.

Il volume è organizzato secondo uno schema cronologico, affrontando nel capitolo I la fase conclusiva della Seconda guerra mondiale e il dopoguerra, con l’antagonismo fra le autorità della Repubblica Sociale Italiana, per lo più inclini a mantenere la propria giurisdizione sulle carceri, e quelle naziste, che invece “non ritenevano di aver bisogno di alcuna giustificazione giuridica per effettuare il trasferimento dei detenuti nelle fabbriche e nelle carceri tedesche” (6) oltre che nei campi di Dachau, Mauthausen, Ebensee. Nel capitolo II il “carcere morale” degli anni del boom economico fino ai Sessanta, raccontato anche dalla formidabile inchiesta giornalistica di Benelli e Fedeli, reporter de Il Tempo, che in dieci puntate settimanali presentarono alla nuova Italia del boom economico un ritratto tremendo della realtà carceraria. Nel capitolo III, l’autore riferisce degli anni successivi alla contestazione del 1968, con la comparsa di campagne da parte di artisti politicamente impegnati, soprattutto Dario Fo e Franca Rame, e la fondazione del Soccorso rosso e del Soccorso rosso militante.

Nel capitolo IV si racconta degli anni di piombo e degli anni Ottanta, con la suddivisione in detenuti politici e non politici, e l’introduzione dei carceri di massima sicurezza dove sono trasferiti i capi terroristi e i criminali più pericolosi. Il capitolo dedica anche delle pagine gustose sulla genesi della “Legge Gozzini” (111-18) del 1983, poi perfezionata dalla riforma penitenziaria del 1986 che introduce l’articolo 41-bis. La “Legge Gozzini” è interpretata dall’autore come uno dei punti più alti della storia del carcere in Italia, promotrice fra l’altro di un sistema di permessi e di altri benefici relativi alla buona condotta dei detenuti nello scontare la propria pena, in grado di porre un punto fermo nel disincentivare le rivolte e la cooperazione fra detenuti ai tentativi di insubordinazione.

Il capitolo V, dedicato agli ultimi due decenni, racconta delle riforme in senso restrittivo sulla “Gozzini”, a partire dal triennio 1990-93, e dal sorgere di un nuovo carcere globalizzato e da politiche propagandate in modo bipartisan come “fondate sulla sicurezza”. Le ultime pagine del volume sono dedicate agli effetti contrastanti di riforme famose: “Legge Jervolino-Vassalli” e la “Legge Martelli” del 1990, la “Legge Turco-Napolitano” del 1998, la “Legge Bossi-Fini” del 2002 e la “Legge Fini-Giovanardi” del 2006. La somma di questi provvedimenti porta al progressivo aumento della popolazione carceraria senza però il necessario adeguamento delle strutture ospitanti, con la conseguente necessità dell’indulto del 2006, fortemente richiesto e ottenuto da papa Giovanni Paolo II.

La narrazione, come ammette l’autore stesso nell’introduzione, s’incentra soprattutto sulle vicende dei detenuti uomini nelle carceri per adulti; una storia del carcere femminile o minorile è ancora da scrivere, in Italia. In conclusione, il testo di De Vito colma, almeno parzialmente, una lacuna rilevante della storiografia italiana. Sebbene l’autore faccia trapelare l’indirizzo ideologico della sua passione civile, trascurando un po’ il punto di vista delle guardie penitenziarie, nel complesso si tratta di un lavoro seriamente documentato che contribuisce allo sviluppo della storia sociale italiana.

Articolo Precedente

Libri e leccornie

next
Articolo Successivo

Il sole dei morenti

next