Il meglio film sotto l’albero: il più politico, il più interessante, e il più “sensibile”. Ed è un addio: George Clooney alza la manina, e fa “Bye bye Obama”. Vediamo come. Tratto dalla pièce Farragut North e scritto con il sodale Grant Heslov e lo stesso drammaturgo Beau Willimon, Le idi di marzo (domani in sala con 01 Distribution) è il quarto film di Clooney regista, e al pari di Goodnight, and Good Luck, il suo migliore.

La tautologia finisce qui, perché (quasi) tutto il resto non lo direste: vi ricordate il lib-dem di gusto e sostanza, l’accanito sostenitore della corsa presidenziale di Obama? Ebbene, scordatevelo: “Il film è stato pensato nel 2007, poi è stato eletto Barack: l’ottimismo era diffuso, la sceneggiatura cinica, quindi l’abbiamo rimandato. Ma l’anno dopo è arrivato il momento”.  Il momento della disillusione, della fine dell’endorsement senza se e senza ma, dell’appoggio acritico a Barack: l’America ha aperto gli occhi, Clooney poteva continuare a dormire?

No, ed eccoci in Ohio alle primarie del Partito Democratico, con il giovane e idealista guru della comunicazione Stephen (Ryan Gosling) e il candidato Mike Morris (Clooney). Problema, Stephen ci crede davvero: Mike non è solo il suo uomo, ma l’uomo giusto per gli States. Eppure, il cinismo e la corruzione del teatrino politico non fanno da quinta: i fallimentari peana alla lealtà del capo di Stephen, Paul (Philip Seymour Hoffman); i machiavellismi a sangue freddo di Tom, l’addetto stampa del rivale (Paul Giamatti); le stagiste (Evan Rachel Wood) di clintoniana memoria, al netto del sigaro. E il non tanto buono Stephen? Scoprirà che si può cadere rovinosamente (Paul), cadere in piedi (Mike) o non cadere affatto: l’importante è trasformare il sound check a uso e consumo altrui (Mike) in voce propria, perché – non fatevi abbagliare – vox mea vox Dei.

Così ragiona la politica (non solo) stelle & strisce, che ha infiniti privilegi, prerogative ad libitum, e un solo divieto: “Un presidente può far tutto, tranne portarsi a letto le stagiste”, tanto per farci capire che non siamo in Italia e riportare Clinton nell’agone. Un agone in cui sguazza pure Robert Redford: era tra Tutti gli uomini del presidente, e che è questo se non “Tutti gli uomini del candidato presidente”? E ci ha edotti di come sia facile scambiare nella polis odierna Leoni per agnelli, ma Clooney va oltre: ne segue la lezione liberal, ma la supera artisticamente (George è un ottimo regista, Redford no) e ideologicamente.

Didascalismi tenuti a bada, attori super (Gosling, qui “il pulitino” che ti frega, è il miglior interprete della giovane Hollywood) e una drammaturgia tanto classica quanto efficace, perché ora Yes We Can non lo dice più Obama, ma questo cinema con le orecchie dritte e gli occhi puntuti, perché – l’han detto – oggi Shakespeare sarebbe il miglior (video)blogger e posterebbe queste Idi di marzo.

Che ci portano per mano nel backstage politico, tra uomini-macchina, uomini-faccia e sintesi concesse: è la politica, bellezza. E ci fa pensare: chi tra i nostri registi di sinistra avrebbe polso e sguardo per mettere alla berlina un Obama nostrano, che ne so, un Veltroni qualsiasi o un Renzi eventuale? No George, no film? Purtroppo, parrebbe di sì.

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