Tripoli, bel suol d’amore… I destini dell’Italia e quelli di questo Paese nordafricano sono strettamente intrecciati. E siamo destinati a non fare bella figura, qualunque cosa diciamo e facciamo. Forse sarebbe meglio tacere. Ma il silenzio non sempre è d’oro…

La comunità internazionale è quello che è. Il diritto internazionale, in rapido mutamento, rischia di perdere definitivamente le sue caratteristiche di ordinamento giuridico e allora solo le armi hanno diritto di parola. Il paradigma normativo internazionale imperante, fino a qualche tempo fa, era quello del principio di non intervento. Se scoppia in un Paese una rivolta, un’insurrezione, se la vedano fra di loro e vinca il migliore, nel senso di chi picchia più, ovviamente disponendo dei mezzi adeguati per farlo.

Unica eccezione, prevista dall’art. 2, comma 7 della Carta delle Nazioni Unite, l’applicazione del Capitolo VII, che richiede però l’esistenza di una minaccia o violazione della pace e sicurezza internazionale. Applicando questo paradigma, una risoluzione come la 1973, che prevede la delega ai volenterosi dell’intervento volto a salvaguardare i civili, presenta indubbiamente profili di discutibile legittimità. Né convincono i riferimenti alla “responsibility to protect”, concetto di forte vaghezza affermato dal Consiglio di sicurezza, ma privo di riscontri nella Carta delle Nazioni Unite o in altri atti di diritto internazionale.

Estremamente arduo anche vigilare sull’applicazione di tale risoluzione, per il difetto di meccanismi di controllo. Una volta ottenuta una delega di questo tipo, gli Stati e le alleanze militari fanno come gli pare e quanto sta accadendo in Libia ce lo dimostra. La guerra civile si internazionalizza e non è necessariamente un bene.

Gheddafi è quello che è. Un regime degenerato nell’autoritarismo e, negli ultimi tempi, incline anche alle liberalizzazioni e alle privatizzazioni, in buona armonia con il capitale finanziario internazionale, che si è alienato il consenso di buona parte della popolazione, e che si è reso colpevole di repressioni spietate, e non da oggi. Ce ne accorgiamo ora. Solo pochi mesi fa, il “cane pazzo” veniva ricevuto con tutti gli onori dal suo compare Berlusconi. Governo ipocrita e complice, opposizione come sempre inefficace, movimento e società civile disattenti, troppo presi dalle vicende boccaccesche del satrapo imbottito di Viagra.

Sono rimasto colpito dall’intervento, sul Manifesto di oggi, di Farid Adly. Scrive Farid: “Vivo la guerra libica come una sconfitta personale. La mia generazione di libici è fallita. Non abbiamo fatto abbastanza per sconfiggere la dittatura gheddafiana”, e prosegue: “Perché considero giusta la richiesta della No Fly Zone? … Perché era l’unica strada per la salvezza dei giovani libici che hanno dato vita a questa rivoluzione, a questa resistenza”, ma aggiunge, “è, parimenti, diritto dei miei compagni pacifisti italiani dichiararsi contrari all’intervento delle potenze occidentali”. Poi Farid dice anche che sarebbe opportuno che ad ogni modo l’Italia stesse fuori dall’intervento militare. Come dargli torto?

Non è solo la tua generazione, Farid ad avere fallito. Ma anche la nostra. Probabilmente del resto è più o meno la stessa. Ma siamo ancora giovani e possiamo rimediare, non è tempo di depressione e fuga nel privato. Riconoscere le nostre sconfitte comuni è la condizione per andare avanti. Scendiamo in piazza sabato anche per dire che la guerra si fermi, che la parola torni ai popoli, a Tripoli come a Roma, come a Parigi e ovunque… A voi auguro di liberarvi di Gheddafi, ma senza cadere dalla padella nella brace. E noi speriamo di riuscire a liberarci di Berlusconi senza dover invocare la Nato…

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