Buried – Sepolto? Di nome, e di fatto. Il regista spagnolo Rodrigo Cortés confeziona un dramma da bara – da domani in sala con Moviemax – dove la paura si consuma prima dell’ossigeno. Al Sundance Film Festival, dicunt, ha tenuto gli spettatori col fiato sospeso: sarà, ma anche l’altitudine deve averci messo lo zampino, perché in sospensione rimane la verosimiglianza, e per un thriller comunque politico non è roba da poco.

Si parte e si finisce con Paul (Ryan Reynolds, marito di Scarlett Johansson e prossima Lanterna verde), che si ritrova in una cassa da morto tre metri sottoterra con un cellulare, una matita, un accendino e una torcia: dovrà usarli per farsi individuare dai soccorritori entro 90 minuti. Ce la farà il nostro eroe? Nonostante le apparenze, la domanda non è di vitale importanza.

Progressivamente, capiamo che fa l’autista per un contractor in Iraq, è stato sequestrato da supposti terroristi, ha una moglie innamorata, una madre smemorata, un datore di lavoro menefreghista e qualche residua speranza nell’Hostage Working Group
Soprattutto, non vuole morire e – gliene va dato atto – le prova tutte per non arrendersi: tuttavia, l’ansia è divorante (H2O) e il fuoco non l’idea migliore per neutralizzare un serpente…
Aristotelico di stretta osservanza (le unità di tempo, luogo e azione striminzite che più non si può), il giovane filmaker cerca di ficcare nella bara pure le tante problematiche della guerra americana in Iraq: superfluo dire come, dal ruolo dei contractors alle ripercussioni sui civili, dalle menzogne dell’esercito Usa al miraggio di ricchezza per Paul e altri poveri cristi, siano tutte questioni di grande respiro, che “incassate” si trovano subito a boccheggiare. Aggiungete una zoomata indietro tutta ad “aprire” la bara e riflettere la finzione, un finale che paga tutte le incongruenze narrative e fattuali messe in clessidra, e troverete qualche certezza: la claustrofobia non è politica, l’ansia non fa paura e anche le migliori intenzioni finiscono sottoterra.

Ps: vi diranno che l’Iraq non c’entra, che era un mero escamotage per farsi finanziare il film. Ok, concediamolo, e allora perché scoprire il meccanismo (la bara aperta), perché giocare fuori (Iraq e ripercussioni familiari, al posto di introspezione: sembra paradossale, ma il film non è introspettivo!) l’istinto di sopravvivenza di quest’uomo senza troppe qualità? Qualcosa, più di qualcosa, non torna: l’esercizio di stile – tautologico – richiede stile, qui, viceversa, c’è una smaccata stilizzazione che apre al contenutismo, ovvero alla materia più scottante in agenda, l’Iraq. E basta, per favore, con l’equazione dei poveri: low budget = grandi risultati..

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