Per quanto il termine terroir sia invalso nella lingua francese dal XVI secolo, soltanto da qualche anno si è affermato in altre lingue. Senza alcun adattamento. Difatti i traducenti adoperatati, quali Boden o soil o l’italiano territorio, non mantengono la denotazione di terroir, né rispettano le sue connotazioni. Il terroir indica una estensione limitata di territorio, considerato per qualità e attitudini agricole, specie vinicole, nell’unicità di ecosistema cui l’uomo ha saputo dare rilievo nella storia e nella cultura.

A tale concetto si ispirano le leggi o le denominazioni che dovrebbero tutelare e garantire le origini di un vino. Esse derivano dalla “zonazione”, cioè una delimitazione in macro o micro zone di territorio, che si concreta nel nome geografico del vino. In passato la zonazione seguiva usi e consuetudini locali, peraltro affidabili e costanti. Oggi ci si avvale di mezzi scientifici. Non di rado la scienza ha attestato ciò che la consuetudine, ossia l’esperienza, aveva già stabilito.

La zonazione si fonda, ovviamente, sul concetto di terroir. Nonostante quest’ultimo sia stato avversato per due decenni, specie nei continenti viticoli extraeuropei. Tale concetto, però, appare evidente e inconfutabile da millenni. Già nell’Odissea è scritto che Ulisse, mentre stava per approdare nell’isola dei Ciclopi (nient’altro che la Sicilia), notò che il luogo era adatto ai vini di qualità. Difatti i Greci, diffondendo la viticoltura nei paesi mediterranei, piantarono solo dove trovarono flora mediterranea: quale ad esempio l’ulivo. Tale flora testimoniava la “vocazione” dell’area.

In seguito, i Romani coniarono una locuzione felicissima: “genius loci”. E, pur infrangendo la prassi greca, ossia sperimentando che la vite può vivere in climi settentrionali, si attennero all’esperienza della qualità: “Bacchus apertos colles amat”. Predilessero dunque colline e pendii assolati nella loro politica di espansione e colonizzazione.

In tali luoghi la viticoltura si conservò fino al Medioevo: quando cominciò una frammentazione dei grandi possedimenti feudali. Essa comportò la discesa a valle della vite, in terre inadatte all’alta qualità. La ricerca di luoghi adatti alla vite si ravvivò con la scoperta del Nuovo Mondo. Gli emigranti, bisognosi di vino, piantarono vite anche in aree non vocate…

Oggi, nei continenti extraeuropei, per ragioni perlopiù economiche e industriali, la viticoltura continua a espandersi in ambienti pianeggianti e irrigui (non vocati dunque): anche nelle aree sub-tropicali e tropicali, dove la vite viene maggiormente attaccata dai parassiti, ma può produrre 2-3 volte all’anno.

In Europa, invece, si assiste a una fase recessiva della viticoltura di qualità e ci si adopera per mantenerla nei terreni vocati: quelli che richiedono maggiore costi di lavorazione. La vecchia Europa abbandona i campi anche perché invecchiano i viticoltori più che le viti. Infatti dopo la fillossera, pidocchio che fra il XIX e il XX secolo ha devastato le vigne di tutta Europa, si sono ridotti gli anni di vita (il ciclo vitale) delle viti. Cioè delle piante che sono oggi presenti nelle nostre vigne.

L’apertura dei mercati internazionali, inoltre, ha permesso un diretto incontro, o meglio scontro, delle “due viticolture”: quella europea, che ha creduto in parte nel terroir, e quella del Nuovo Mondo, che ha creduto in toto nel vitigno. Francamente, la viticoltura del Nuovo Mondo ha creduto soltanto in pochi vitigni: 5 o 6 al massimo, che per ragioni storiche e ampelografiche, oltre che economiche, sono stati piantati ovunque. Per citare Il prof. Fregoni, fra i massimi esperti di viticoltura: “se è certo che un terroir è capace di nobilitare un vitigno, è altrettanto certo che non può accadere il contrario”.

Dunque non si comprende come perfino la CEE abbia potuto dividere le zone viticole in base a criteri politici, e non in base al terroir.

D’altra parte, in termini di quantità, non c’è confronto fra la viticoltura europea e quella del nuovo mondo: la prima vale solo un terzo della seconda. Così, da qualche anno anche negli Stati Uniti si parla di terroir, soprattutto a scopi commerciali.

Ciò deve indurre l’Europa a riconsiderare la storia. L’importanza dei cru è stata palesata fin dai Greci, esaltata dalle denominazioni dei Romani, protetta già prima delle rinomate classificazioni francesi: Tokai, Chianti e Porto sono zone di produzione delimitate già nel XVIII secolo. All’Europa quindi, alle aree vinicole di storia e qualità, spetta il compito di studiare e proteggere il genius loci. Pertanto non devono rinnegare la memoria, senza di cui non c’è identità. Identità che implica limitazioni: in cui si esercita però la libertà più autentica. Difatti, per gli antichi, il concetto del limite era fondamentale allo sviluppo dell’individuo: il limite era considerato un termine definito entro cui perfezionarsi, e non una barriera allo sviluppo individuale. Così anche nel terroir il limite è ricchezza e diversità: non coltivando i vitigni internazionali ma le varietà locali; non omologando i vini e gli aromi con pratiche enologiche industriali; non ampliando indiscriminatamente le aree di produzione.

Soltanto in questo senso assume valore l’ambiguo e abusato concetto di “tipicità”, termine che è stato tolto anni fa dalle schede internazionali di degustazione per la valutazione dei vini.

Ps: parte del brano che ho scritto per il libro “Das Terroir der Wachau”, in uscita fra qualche mese: frutto dell’annoso lavoro di studio e ricerca di Toni Bodenstein, sindaco di Weinssenkirchen sul Danubio e produttore di vino austriaco (weingut Prager) noto in tutto il mondo.

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