Settant’anni fa, il 16 maggio del 1954, a Città del Messico, moriva di collasso cardiaco Clemens Krauss. Il direttore d’orchestra viennese, inventore tra l’altro del Concerto di Capodanno, aveva di poco superato i sessant’anni, era nel pieno fervore creativo, l’anno precedente aveva diretto a Bayreuth una memorabile edizione del Ring e una inarrivabile del Parsifal; con l’inglese Decca era nel bel mezzo dell’incisione dei poemi sinfonici del suo amico e maestro Richard Strauss oltre a dirigere nei teatri di mezzo mondo.

Il 1954 a guardarlo bene, per chi ama i passaggi nella storia dell’interpretazione, è stato un anno cruciale: ad aprile si ritirò Toscanini dopo un concerto wagneriano che fece trattenere il fiato a molti, poi oltre a Krauss in maggio, a novembre morì anche Furtwängler. Un grande vuoto si era aperto nel cuore dell’impero musicale austro-tedesco, che Knappertsbusch non voleva riempire né a Berlino né a Vienna; Erich Kleiber era troppo collaborativo ad Est e aveva un proverbiale cattivo carattere, poco politico; Celibidache era un giovane geniale ma controverso e soprattutto era ostile alle registrazioni; Klemperer, il grande vecchio superstite, tornato in Europa, siglava proprio quell’anno un contratto con la Columbia di Walter Legge che avrebbe regalato al microsolco la più straordinaria estate indiana della musica registrata del Novecento, ma non aveva intenzione di avere un posto stabile in Germania dopo la persecuzione e la Shoah e le sue sedi privilegiate rimasero Londra e Amsterdam con poche puntate indimenticabili a Vienna.

Il campo rimase aperto alla fiammata dirompente del carisma di Herbert von Karajan che in pochi anni occupò tutto il territorio occupabile ma finendo per concentrarsi a Berlino e Vienna (oltre che a costituire il suo feudo nella natia Salisburgo).

Krauss sarebbe stato nell’età giusta per avere in mano l’Europa musicale e soprattutto l’amata Staatsoper di Vienna ma le Parche decisero diversamente (pare che la delusione dell’assegnazione a Bohm dell’incarico di Vienna sia stata motivo di quello stress che lo portò all’infarto, ma le malelingue in loggione non sono mai mancate). A testimoniare però il suo inestinguibile charme, la sua proverbiale eleganza di fraseggio di autentica levità viennese ma anche la sua capacità dionisiaca di delineare sia gli abissi wagneriani che gli enigmatici apoftegmi dell’ultimo Beethoven della Missa Solemnis, resta una manciata di preziosissimi dischi, alcuni dei quali registrati miracolosamente a Vienna per Decca, oltre a una altrettanto preziosa messe di dischi ‘live’.

Non resta quindi che passare in rassegna veloce i sublimi resti di questa discografia preziosa ma purtroppo assai monca, perché il repertorio di Krauss fu veramente amplissimo e l’immagine che i dischi ci restituiscono è assai parziale, cioè quella dell’interprete di Wagner e Strauss, immagine quantomai falsata.

Il collezionista appassionato avrà già compulsato il box che la Universal tre anni fa fece uscire con tutte le incisioni Decca. Ovviamente di riferimento rimangono i 6 dischi straussiani in studio di Wiener, con i poemi sinfonici che Krauss riuscì a incidere e la Salome che purtroppo ha come unico ma enorme neo l’interpretazione della protagonista, Christel Goltz che pure era celebre ai suoi tempi proprio come Salome ma che in disco ci restituisce un carattere piuttosto petulante e vocalmente un po’ fuori fuoco rispetto al ritmo incalzante e dionisiaco che Krauss impone, superbo il resto del cast e senza paragoni la direzione d’orchestra.

Caratteristica interpretativa fondamentale di Krauss era la smitizzazione e l’anti-titanismo sia in Strauss che in Wagner, il suo altro grande pilastro interpretativo consegnato al disco. Sia in Strauss che in Wagner, infatti Krauss ricercò la cantabilità, snellendo di molto il passo che perse tutta la ieraticità e la staticità tanto cara a certa interpretazione teutonica del repertorio, specie wagneriano. Ne vennero interpretazioni snellite ma senza che si perdesse il nerbo, si perse in aura mitologica ma si guadagnò in follia dionisiaca e con i giusti interpreti raggiunse risultati al calor bianco difficilmente replicabili.

Di Wagner abbiamo un Ring completo, quello del 1953 a Bayreuth e il Parsifal dello stesso anno sempre a Bayreuth. Oltre questo abbiamo una meravigliosa incisione di Der Fliegende Hollander del 1944 con un giovanissimo Hans Hotter, la moglie Viorica Ursuleac come Senta. Il Ring e il Parsifal sono agogicamente tra i più mossi mai registrati: uno snellimento del peso orchestrale e dei tempi che era in perfetta linea con lo svecchiamento voluto nel secondo dopoguerra da Wieland Wagner, un complesso vocale storico e unico: Astrid Varnay magnifica Brünhilde come non lo sarebbe mai più stata, Hotter impressionante e definitivo Wotan e un Windgassen graziato dagli eroismi poté essere un Sigfrido pieno di energia giovanile e lirismo.

Nel Parsifal, a parte lo straziato protagonista cantato da Ramon Vinay e il dolente e timbricamente irripetibile George London come Amfortas è su Martha Modl, sulla sua Kundry che Krauss costruisce la follia dionisiaca e il fuoco con cui fa divampare l’intera performance.

Per le opere di Strauss live non si può non prendere in considerazione le due registrazioni superstiti del Rosenkavalier, una del 1942, una del 1944 e una a Salisburgo del 1953, soprattutto quella del ’42 superba, anche se davvero non mancano interpretazioni ragguardevoli di quel capolavoro e poi, oltre la Salome in studio, almeno altre tre registrazioni straussiane live: quella di Ariadne auf Naxos, la prima esecuzione di Die Liebe der Danae opera un po’ negletta del compositore di cui abbiamo qui indubbiamente l’esecuzione migliore in catalogo, e poi Capriccio di cui Krauss fu anche librettista, di cui esiste una preziosa registrazione della premiere nel 1942 e una del 1953 a Monaco.

Semplicemente, pagine di storia.

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