Zaccaria Mouhib, trapper noto come Baby Gang, ha 22 anni e oltre otto milioni di ascoltatori mensili su Spotify. È uno dei rapper italiani più noti all’estero e il singolo uscito un mese fa come primo estratto dal suo ultimo album ha già quasi tre milioni di visualizzazioni su Youtube. Quando un intervistatore gli domandò se il suo album del maggio 2023 dal titolo “Innocente” fosse stato scritto nel carcere di Monza, lui rispose: “No, lì non facevo niente, era un carcere punitivo, non avevo i beat, era già tanto che avessi la penna. Stavo a guardare il muro e fumavo”. Il carcere ammazza ogni creatività.

Alla fine dello scorso aprile Zaccaria è stato riportato in cella. L’avvocata Mariapia Scarciglia, presidente di Antigone Puglia, collabora con il suo legale per un progetto voluto dallo stesso artista sulle carceri. Sono entrambi increduli per una simile insensata decisione. L’artista avrebbe violato gli arresti domiciliari per aver postato su Instagram alcune foto di lancio per il suo album “L’angelo del male”, che ha subito scalato le classifiche. Nelle foto comparivano oggetti di scena, tutti finti: una pistola, dei pacchi di droga… Un’iconografia trap che conosciamo, che qualcuno può anche legittimamente criticare sul piano culturale, ma che non si capisce cosa c’entri con il piano delle leggi e delle pene.

Se ne è accorto il Governatore della California Gavin Newsom, che il 30 settembre 2022 ha firmato pubblicamente la proposta di legge dal titolo ‘Decriminalizing Artistic Expression Act’. Alla cerimonia erano presenti gli artisti hip hop Killer Mike, Meek Mill, Too Short, Ty Dolla Sign, YG, E-40 e Tyga. La legge vuole contrastare quella pratica, abusata nei tribunali statunitensi, di portare in aula i testi delle canzoni rap come fossero una prova dei crimini commessi dai loro autori.

Ha fatto scuola al proposito il processo al rapper Young Thug. Secondo l’accusa, quando l’artista nella canzone Anybody canta: “Non ho mai ucciso nessuno, ma ho qualcosa a che fare con quel corpo”, starebbe ammettendo una complicità indiretta nell’omicidio di Donovan Thomas Jr., componente di una gang rivale.

Dopo l’arresto di Young Thug, oltre cento tra artisti, leader dell’industria musicale, esperti legali hanno firmato una lettera aperta sul New York Times criticando la pratica di trattare le canzoni come fossero confessioni. “I rapper sono narratori”, si legge, “creano interi mondi popolati da personaggi complessi che possono interpretare sia l’eroe che il cattivo. Ma più di ogni altra forma d’arte, i testi rap vengono essenzialmente usati come confessioni nel tentativo di criminalizzare la creatività e l’arte nera”.

Ma torniamo a Baby Gang. La sua storia è una di quelle che ho raccontato nel libro Jailhouse Rap. Storie di barre e sbarre, appena uscito per le edizioni Arcana e scritto insieme a Patrizio Gonnella. Nato a Lecco nel giugno 2001 da genitori marocchini, ha vissuto con la famiglia in condizioni estremamente disagiate fino a quando non ha deciso di essere sufficientemente grande da smettere di pesare sul padre e sulla madre. Aveva solo undici anni. “Sono uscito di sera, avevo preso l’ultimo treno, e da lì mi sono trovato in stazione da solo, senza amici, senza nessuno, ero io, uno zainetto e un paio di merendine”, racconta.

Per anni dorme sui treni o sotto i ponti di Lecco. Non è affatto facile in un paese che, con le sue leggi sull’immigrazione, ti sta semplicemente dicendo che non ti vuole, che non fai parte della sua comunità, nonostante tu sia nato in Italia e ti senta del tutto italiano. Zaccaria vive di piccoli furti, ruba cibo e vestiti, dorme nella spazzatura, si arrangia come può, abusa di alcol, cannabis, Rivotril. Questo quando è fuori.

Altrettanto spesso è dentro: “ogni estate l’ho passata o in galera o in comunità”, racconta ancora. “Baby Gang teneva molto al progetto nelle carceri che voleva realizzare dopo l’uscita del disco”, mi dice Mariapia Scarciglia. “Ripeteva che il carcere gli ha tolto molto ma non la voglia di fare la sua musica. Era questo che voleva portare nelle carceri: la musica e la scrittura, armi potenti capaci di salvare la vita a tanti ragazzi reclusi”. Il primo singolo lo pubblica nel 2018. Si chiama Street e attira una discreta attenzione. In quel periodo entra nella sua vita Don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile milanese Beccaria assurto di recente al triste onore delle cronache per le sistematiche violenze lì dentro subite dai ragazzini.

Il carcere è un’istituzione cieca e sciocca. Non valorizza il talento musicale di Baby Gang, ne ostacola i progressi, rende difficile ogni passaggio: ottenere uno strumento, un permesso per andare a registrare, un colloquio con il produttore. Ma Don Burgio crede in lui: “Mi faceva andare in studio anche quando gli assistenti sociali non erano d’accordo, perché lui non guarda i fogli della legge, ma la persona, ed è questo che serve: un ragazzo lo si aiuta a quattr’occhi”.

La storia di Baby Gang è il riassunto plastico dell’idiozia cui sa arrivare il nostro sistema penale e penitenziario. La pena deve tendere al reintegro in società, un ragazzo parte dall’esclusione più profonda, riesce con la sua passione ad affermarsi come artista, ma l’istituzione invece di valorizzarlo ne ostacola in tutti i modi i percorsi e continua a inchiodarlo alla sua immagine di delinquente. Avremo così un criminale in più e un musicista in meno.

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