Nelle scuole italiane il 16 aprile è stato avviato un progetto molto particolare. Il nome è “I come Intelligence” ed è il frutto di un accordo – senza precedenti in Italia – tra il ministero dell’Istruzione e il DIS, l’organo a capo dei servizi segreti. È descritto come “un percorso volto ad accompagnare i giovani alla scoperta di funzioni, compiti, organizzazione e protagonisti degli Organismi informativi, così come dei principali fenomeni di minaccia”. Anche da qui passa la militarizzare dell’istruzione italiana.

A raccontarlo è Antonio Mazzeo, docente e autore del libro “La scuola va in guerra” durante il convegno e l’Assemblea Nazionale organizzati a Roma dall’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, che da anni porta avanti il suo impegno sul tema. Il titolo dell’incontro è infatti chiaro: “La scuola italiana va in guerra? Comprendere i conflitti, educare alla Pace”.

Nelle aule. Si parte dunque dai banchi. “Come ai tempi del fascismo – spiega Mazzeo – oggi si sperimentano comportamenti, percorsi e curricula subalterni alle logiche di guerra e agli interessi politico-militari dominanti”. Attività affidate a generali e ammiragli docenti (dalla lettura e interpretazione della Costituzione e della Storia all’educazione ambientale, alla salute, alla lotta alla droga). E ancora: i cori e le bande di studenti e soldati; gli stage formativi sui cacciabombardieri, carri armati, sottomarini e fregate di guerra; l’alternanza scuola-lavoro a fianco dei reparti d’élite delle Forze Armate o nelle aziende produttrici di armi. “Il frenetico attivismo dei militari in ambito scolastico – continua Mazzeo – si manifesta anche con la raccolta e la donazione di libri e ausili didattici a studenti e istituti svantaggiati, borse di studio o premi intitolati a ‘eroi’ di guerra”.

Negli atenei. Ma non solo. “L’università per la quale lavoro – ha spiegato invece Michele Lancione, professore di Geografia economica e politica al Politecnico di Torino – si confronta quotidianamente con il tema del duplice uso”. Un esempio sono le tecnologie per il lancio di satelliti in orbita sull’esplorazione spaziale che “non sono diverse rispetto a quelle utilizzate per lo sviluppo di missili balistici intercontinentali”. Magari si invia un trattato scientifico sull’aerodinamica dei razzi a una prestigiosa rivista internazionale e, dopo anni di studi, sforzi di équipe e test di laboratorio, si riceve una valutazione e poi una pubblicazione scientifica. “Altre soggettività della comunità scientifica si relazioneranno allo stesso – spiega Lancione – e chiunque potrà attingere a quella forma di sapere, data la sua natura pubblica”. Anche l’unità di ricerca del consorzio MBDA, la principale cordata europea per la produzione di missili e tecnologie di difesa. Inoltre, il politecnico ha in atto numerose collaborazioni dirette con aziende che operano nell’universo militare, tra cui Leonardo. Lancione racconta: “Quando chiesi pubblicamente al rettore di problematizzare il nostro rapporto con Leonardo, la risposta fu illuminante: Leonardo, mi disse, non produce solo armi. Non solo: i progetti che il Politecnico ha con Leonardo non sono relativi ad armamenti ma a tecnologie ‘duali’ che hanno scopi civili, come per esempio la produzione dei pannelli fotovoltaici che alimenteranno le prossime missioni NASA-ESA sulla Luna”. È qui la questione-trappola del duplice utilizzo (“Cosa c’è di male, in fondo, se collaboriamo alla produzione di robottini spaziali’), un’operazione perfetta semanticamente parlando ma che evita aspetti spesso trascurati: “La legittimazione scientifica che Leonardo ottiene a lavorare col Politecnico e al prestigio politico che il Politecnico ottiene a lavorare con Leonardo; la prossimità logistica del sapere che viene fatto circolare nella collaborazione e il tipo di valore di mercato generato dalla relazione tra le parti, e dalla possibilità di profitto che essa attiva” conclude.

Nella società. Parallelamente, è il punto sollevato invece da Charlie Barnao, professore associato di Sociologia generale all’università “Magna Græcia” di Catanzaro, la società è nel pieno di processi di militarizzazione. Basandosi sui risultati di una lunga ricerca etnografica ha identificato una correlazione tra il modello addestrativo delle forze armate ed episodi di violenza sadica e incontrollata da parte degli attori sociali formati sulla base di quel modello. “Va sfatata la visione dominante che vede le azioni militari come chiare e ben definite, delimitate in ambiti precisi di intervento, spesso interpretate come inevitabili mosse difensive contro degli aggressori – dice -. Il militarismo appare invece come un vero e proprio sistema culturale, spesso latente, che pervade in modo subdolo e dissimulato le pratiche quotidiane nei mondi più disparati: dallo sport all’azienda, dall’industria dell’intrattenimento alla giustizia, dalla scuola all’università”.

Nell’immaginario. Non c’è quindi solo la militarizzazione “esterna” della scuola (le Convenzioni fra la Nato e le Università o fra le Università e Leonardo Med- Or, l’affidamento dei corsi di educazione civica alle forze militari) ma anche una “interna”, realizzata attraverso “la costruzione di un immaginario di guerra che, in maniera sotterranea e automatica, promuove l’eurocentrismo, il razzismo, la gara, il primato del ‘merito’ – spiega Laura Marchetti, docenti di Antropologia e di Pedagogia interculturale dell’Università di Reggio Calabria – raggiunto con la gerarchizzazione del fragile e del diverso, l’enfatizzazione delle competenze utilitaristiche a scapito degli studi umanistici e scientifici. Tutto a scapito del pensiero critico e all’aria aperta”.

Nei media e nel linguaggio. Processi che interessano sempre più anche il linguaggio dei media, come spiega il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio. La propaganda di guerra ormai ricorre a parole che alterano i fatti con quella che può essere definita una “neolingua bellicista”. L’obiettivo pare essere di cancellare le responsabilità occidentali: “Si cerca di cambiare la realtà cambiando le parole, ricorrendo a un nuovo vocabolario” spiega Travaglio. Anche perché “quando si è un guerra si mente, non bisogna scandalizzarsi se tutti fanno propaganda. L’importante è che chi la fa non creda, sacrificando così vite umane, a quella stessa propaganda e per salvare la faccia non assuma decisioni sulla base delle bugie che racconta anziché sui fatti”.

Soluzioni. Suggerite da Annabella Coiro, studiosa di educazione alla non-violenza della rete Edumana, l’esplorazione di metodologie didattiche generative come la maieutica reciproca, l’apprendimento cooperativo e la partecipazione attiva degli studenti nei processi decisionali. Ma anche la cura dell’ambiente di apprendimento e la selezione consapevole dei contenuti formativi. “Tuttavia – spiega Coiro – va riconosciuta l’enorme resistenza che queste pratiche incontrano nel contesto educativo tradizionale. Il cambiamento richiesto deve andare oltre le pratiche individuali e coinvolgere la struttura stessa del sistema educativo”.

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