Dieci anni fa, il 27 aprile 2014, papa Francesco proclamava santi – quasi in congiunzione astrale – Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, che d’altronde anche nel nome si richiamava volutamente al primo.

Ricordare l’evento in questi giorni significa riandare con la memoria ad un lungo arco di tempo, che va dal nostro dopoguerra all’età della “guerra globale” che ci sta afferrando.

Giovanni XXIII è il pontefice che stacca la Chiesa cattolica dallo schema dei blocchi sancito a Yalta. Non è certamente anti-occidentale ma, rispetto all’allineamento di Pio XII, sottolinea nettamente il ruolo di una Chiesa che non si riconosce in una parte del mondo diviso. Una Chiesa che non è – per dirla nel linguaggio attuale dell’Osservatore Romano – “cappellano militare dell’Occidente”.

L’enciclica Pacem in terris di papa Roncalli si rivolge a “tutti gli uomini di buona volontà” e mostra una Santa Sede protagonista di quella stagione che produrrà la distensione tra i blocchi e i primi segni di disgelo all’interno dell’Urss. Sarà questa posizione al di sopra delle parti a permettergli di mediare con successo nella crisi di Cuba del 1962, quando le due superpotenze, invece di scontrarsi (come avviene oggi in Ucraina), troveranno un accordo di compromesso per garantire la pace mondiale. Ma è anche dentro la Chiesa cattolica che Giovanni XXIII apre una fase di disgelo rispetto al clima da fortezza, che caratterizzava il pontificato di Pio XII. Ed è una fase che va ben oltre il disgelo, diventando con il concilio Vaticano II svolta a suo modo rivoluzionaria.

Roncalli, il “Papa buono” come lo ribattezzò l’animo popolare, era mite ma tutt’altro che bonaccione. Lucido nella sua strategia. Per la Curia romana, cresciuta nell’idea autoreferenziale di sapere e potere tutto, osò l’impensabile: convocare un concilio dando la parola ai vescovi di tutto il mondo. Tuttavia, per quegli anni e quel clima interno alla Chiesa, Giovanni XXIII ebbe il coraggio di fare qualcosa di ancora più rivoluzionario. La Curia, passato il momento di sconcerto, aveva già preparato per la prima sessione conciliare il programma (e a suo modo l’esito) dell’assemblea. Cogliendo il fermento innovatore presente nella parte più dinamica dell’episcopato mondiale – vescovi di Francia, Germania, Stati Uniti, Olanda, Belgio e in parte anche italiani – Giovanni XXIII lasciò all’assemblea di organizzare il proprio lavoro, la scelta dei temi, la composizione delle commissioni. Un gesto inaudito di concessione alla “iniziativa dal basso”, in un’epoca in cui tutto veniva comandato dall’alto. Su questa spinta il Vaticano II potè decollare e fu quindi positivamente portato a conclusione da Paolo VI.

Giovanni XXIII rappresenta insomma una Chiesa più materna che dogmatica, che si apre al mondo e alla contemporaneità. (In questo papa Francesco si colloca certamente nella sua scia e non a caso, tornando dal suo viaggio in Mongolia l’anno scorso, ha evocato un Giovanni XXIV quale prossimo pontefice). Dal Concilio emergerà un concetto chiave: la necessità per la Chiesa (ma vale anche per la cultura laica) di saper leggere i “segni dei tempi”.

Un segno dei tempi incarnato è stato senza dubbio Karol Wojtyla. I grandi papi non sono un santino, la loro storia è fatta di pagine bianche, nere, grigie. E anche nel pontificato di Wojtyla ci sono aspetti negativi (la durezza nel negare l’aborto alle suore violentate nella guerra post jugoslava, la durezza nel negare la comunione ai divorziati risposati, l’ostinazione nel negare la prospettiva di un sacerdozio femminile, la contraddizione tra il dolore manifestato per gli abusi e la complessiva opera di occultamento avvenuta durante il suo governo, a cominciare dall’aver impedito che si avviasse il processo al predatore multiplo Marcial Maciel fondatore dei Legionari di Cristo). Al tempo stesso Giovanni Paolo II ha incarnato una Chiesa che supera Yalta, che si basa sulla riconciliazione tra polacchi e tedeschi, che non rimane chiusa nella sua “latinità” ma respira con il polmone della tradizione occidentale e quello della tradizione orientale.

I suoi viaggi incessanti intorno al mondo evidenziano la proiezione globale della Chiesa cattolica. Il convegno da lui convocato di tutte le religioni ad Assisi nel 1986 rappresenta il riconoscimento della pari dignità di tutti i cammini verso Dio, compiuti dalle varie culture. Il solenne mea culpa per gli errori e orrori commessi dal cattolicesimo attraverso i secoli è un coraggioso fare i conti con il passato – a cominciare dalla vergogna dell’antigiudaismo e dai massacri delle guerre di religione. Infine la sua enciclica Ut unum sint rimane ancora oggi uno spunto di riflessione per immaginare un papato rinnovato in dimensione ecumenica.

Giovanni Paolo II è ricordato generalmente per la sua battaglia per l’indipendenza della Polonia, che ha portato successivamente al crollo dell’Urss e dell’impero sovietico. “L’albero era marcio, l’ho solo scosso”, dirà in seguito rifiutando l’immagine di un superman. Vero è che Wojtyla ha intuito per primo che l’ordine di Yalta era superato e che la spinta verso la libertà delle società dell’Europa orientale era insopprimibile. La sua lotta, tuttavia, non ha mai assunto tinte ideologiche nei confronti di Mosca e la sua visione lucida della storia gli ha fatto dire – come confidò a noi giornalisti trasvolando l’Atlantico nel 1999 – che “non so se sia un bene che sia rimasta una superpotenza sola”.

Nel nuovo secolo Wojtyla si è impegnato per una collaborazione delle religioni contro il fondamentalismo terroristico e a favore di pace e giustizia. Ha contrastato l’occupazione americana dell’Afghanistan e ha lottato con tutte le armi della diplomazia contro l’aggressione di Bush junior contro l’Iraq. Cosa che si tende a dimenticare. Lì per lì sembrò isolato, ma la Storia dette ragione a Giovanni Paolo II: l’avventura irachena fu una catastrofe per gli Stati Uniti oltre che per il popolo iracheno. E in questo Francesco pare in sintonia con il suo predecessore, quando chiede che si ponga termine ai conflitti deliranti in Ucraina e Terrasanta.

Alla fin fine con i suoi papi la Santa Sede è più al passo della Storia che l’Italia, così passiva sulla scena internazionale, e l’inconcludente Unione europea.

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