Si preannuncia un vertice teso e dal risultato incerto quello dei ministri degli Esteri e della Difesa dei 27 Stati membri dell’Ue che lunedì si ritrovano in Lussemburgo per discutere nuovamente della necessità di inviare armi all’Ucraina. L’ultimo Consiglio europeo si è chiuso con tante dichiarazioni d’intenti, la promessa di un supporto indiscutibile a Kiev, ma senza indicazioni specifiche. E questo preoccupa non poco il presidente Volodymyr Zelensky, confortato solo dal primo ok del Congresso americano allo sblocco di 26 miliardi di aiuti. Ma a far capire che il vertice di lunedì sarà tutt’altro che semplice è, come sempre, il primo ministro ungherese, Viktor Orbán, il capo di governo europeo più vicino a Vladimir Putin.

“Siamo a un passo dall’invio di truppe da parte dell’Occidente in Ucraina”, ha dichiarato il leader di Fidesz, tornando a utilizzare lo spauracchio dell’intervento diretto di Nato e Ue nel conflitto tra Russia e Ucraina e annunciando implicitamente che per convincerlo a non mettere il veto a un nuovo piano di forniture Bruxelles dovrà fare un nuovo sforzo. “Si tratta di un vortice di guerra che può trascinare l’Europa nel baratro – ha scritto il premier sul suo profilo Facebook – Bruxelles gioca col fuoco. In Europa l’atmosfera è quella della guerra e la politica è dominata dalla logica della guerra. Vedo la preparazione alla guerra da parte di tutti”. Poi precisa però che il suo Paese “deve restarne fuori. Questa non è la nostra guerra. Non la vogliamo e non vogliamo che l’Ungheria torni ad essere il giocattolo delle grandi potenze”.

Con queste premesse sarà complicato per i leader europei trovare l’unanimità necessaria a favorire lo sblocco di nuovi aiuti a Kiev. Anche perché il resto delle cancellerie è tutt’altro che compatto: l’Ucraina chiede a gran voce sistemi di difesa aerea che in Europa iniziano a scarseggiare e chi ne ha non vuole spedirli al fronte, limitando così la propria difesa nazionale. Sulle forniture di armamenti, infatti, l’Unione europea può limitarsi a essere il luogo dove si raggiungono intese non vincolanti, dato che la Difesa rimane responsabilità esclusiva dei singoli Stati.

Così, mentre Zelensky esulta per il primo successo ottenuto al di là dell’Atlantico, affermando che “questo sostegno (quello americano, ndr) rafforzerà davvero le forze armate, avremo una possibilità di vittoria“, in Ue si fa la conta dei sistemi d’arma da fornire a Kiev. E la boccata d’ossigeno data da Washington diminuisce ulteriormente lo stimolo all’invio di armi in diverse cancellerie. Kiev ha chiesto almeno sette sistemi Patriot o Samp-T, ad esempio, ma di quest’ultimi ce ne sono pochi in giro e i Paesi che li possiedono, come Francia e Italia, non vogliono privarsene. La Germania ha già inviato il terzo sistema, sui 12 in totale in suo possesso, e considera il suo impegno terminato. Gli occhi di tutti sono, ad esempio, su Paesi come la Grecia che, dalle informazioni circolate, avrebbe ben 20 sistemi Patriot nel suo arsenale.

I vertici delle istituzioni europee sperano che a motivare alcuni governi sia il Fondo Europeo per la Pace che può rimborsare agli Stati membri anche la fornitura dei sistemi di difesa aerea. Il problema è che rimpiazzarli non sarà facile: produrre sia i Patriot che i Samp-T richiede anni e Kiev non può più aspettare. Il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, è stato chiaro: inviateli, li rimpiazzeremo dopo. A Bruxelles, però, non sembrano essere fiduciosi. Tra chi non lo nasconde c’è, ad esempio, Josep Borrell: “Non dobbiamo aspettarci annunci concreti”.

Twitter: @GianniRosini

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