Da quando si è trasferito in Germania 13 anni fa Alessandro Manfrin, biologo romano 42enne, ha la sensazione di vivere a metà. Fa il lavoro che vorrebbe, ma lontano da casa. Ha una vita sentimentale piena, ma la sua famiglia è lontana. Parla un buon tedesco, ma non riesce a esprimere le sfumature, ad esempio le battute scherzose. Si è trasferito all’Università di Kaiserslautern-Landau (Rptu), a Landau, dopo nove anni passati a fare ricerca tra Berlino ed Essen. La sua carriera però è cominciata in Italia, quando subito dopo la laurea ha intrapreso un dottorato all’Università di Roma Tre. Senza borsa, ha dovuto arrangiarsi come ha potuto: “Ogni anno non ero sicuro di avere i soldi per quello successivo – dice a ilfattoquotidiano.it – ho trovato fondi per i primi due ma non per il terzo”.

Così quando da Berlino gli hanno proposto di iniziare, da zero ma con una borsa dottorale, ha accettato. Ed è da allora che vive dimezzato. “Mi sento sempre al 50% del mio potenziale – racconta a ilfattoquotidano.it – perché so che nella mia lingua potrei spiegarmi meglio sul lavoro, nella vita di tutti i giorni, nel privato. E sarei anche più simpatico. In Germania hanno più fondi e questo permette di fare ricerca di qualità. Ho provato a tornare dopo il dottorato, ma ci sono solo posizioni a breve termine”.

Come ricercatore, si occupa soprattutto di studiare gli insetti che vivono in fiumi e laghi. A Roma lo faceva per valutare la biodiversità degli ecosistemi naturali in relazione al riscaldamento climatico. In Germania il suo lavoro mira a comprendere cosa cambi nelle specie acquatiche in relazione allo stress generato dalla luce artificiale e dai pesticidi. “Le sorgenti luminose non naturali e i pesticidi agricoli alterano le comunità di insetti – spiega – Questi piccoli animali anche se possono sembrare insignificanti, sono decisivi per la salute e la stabilità degli ecosistemi naturali”.

A Berlino lo hanno assunto quasi subito e sulla fiducia. Ci è andato per la prima volta per una visita di ricerca di un mese. I colleghi tedeschi hanno visto come lavorava, è piaciuto e gli hanno offerto un contratto di dottorato triennale. Alessandro così ha ricominciato nel 2013, da zero ma con uno stipendio sicuro. Fin dai primi mesi ha notato due approcci diversi. “In Italia studiamo per avere una formazione completa su vari aspetti – racconta – in Germania la ricerca è più focalizzata sulle direzioni di ricerca concrete”.

A fargli capire che avrebbe fatto meglio a restare fuori però è stato un fattore che non ha a che fare con i contenuti. “La differenza principale è l’aspetto economico – spiega – In Germania gli atenei hanno più fondi per lavorare bene. In Italia i soldi sono sempre limitati, sia per lo stipendio sia per i progetti”.

La Germania è il paese con il record di dottorandi in Europa, con quasi 202mila iscritti, il 30% di tutta l’Ue, contro i 29mila dell’Italia (dati Openpolis 2022). Mentre lo Stato tedesco investe nella ricerca fin dalle prime fasi, anche con l’aiuto di fondazioni di ricerca, gli atenei italiani faticano a garantire continuità ai progetti. E la tendenza non è migliorata nemmeno con gli stanziamenti ad hoc del Pnrr, di cui è stato speso solo l’11% nel 2023. “Il fatto che il sistema tedesco finanzi la ricerca in modo sistematico migliora la qualità del lavoro – spiega Manfrin – perché i laboratori hanno a disposizione più risorse sia per assumere ricercatori, sia per conferenze e strumentazione”.

Anche in Germania comunque il settore è precario, con posizioni quasi sempre a scadenza, ma che coprono almeno due o tre anni. A Manfrin hanno appena rinnovato il contratto: “Starò qui per altri quattro anni e mezzo con un incarico di maggiore responsabilità – dice – Sarò uno dei coordinatori di un progetto che mira a valutare l’effetto dei pesticidi sugli ecosistemi”. Questa volta sarà lui a scegliere chi assumere e dovrà creare un team di 15 dottorandi con cui portare avanti il lavoro. Sullo stesso principio si basano i fondi europei a cui guardano gli accademici italiani che aspirano a rientrare. Si tratta di budget inquadrati dentro programmi come Horizon 2020, Marie Skłodowska Curie, Erc grant. Spesso questi finanziamenti consentono di scegliere un ateneo detto “nido”, come sede per la carriera futura. È in un bando del genere che Manfrin vede l’unica possibilità di tornare. “Con la mia esperienza adesso nessun ateneo mi vorrebbe, perché sarei troppo costoso, ma non ancora ordinario e non ho l’abilitazione scientifica nazionale che in Italia serve per partecipare ai concorsi”.

A rientrare in realtà pensa quasi soltanto per motivi personali: “Mi manca la mia famiglia – spiega – vivere in Germania non è sempre facile”. La sua vita in realtà è già piena. Sta per sposarsi con una violinista uzbeka e in parallelo al lavoro allena una squadra di pallavolo maschile in Serie A, la Baden Volleys, in prima Bundesliga. “Anche in questo percorso penso di avere ottenuto più soddisfazioni in Germania che in Italia – spiega – I tedeschi hanno una mentalità orientata alla struttura tecnico-tattica chiara. Di me hanno sempre apprezzato la filosofia italiana, la flessibilità e il rapporto umano che costruisco con i giocatori. Questo ha anche permesso alle squadre che ho allenato di raggiungere ottimi risultati”.

Nonostante le soddisfazioni personali e professionali, però, Manfrin ha sempre il desiderio di tornare nel suo Paese. “In Germania sono a mio agio in quasi tutti i contesti e ho molti amici. Ma sono qui da 13 anni e il mio tedesco non arriverà mai ai livelli del mio italiano. Tutto quello che faccio qui non lo faccio al mio massimo potenziale”.

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